All’indomani di un Oscar ricco di qualità e povero di grandi sorprese, a dominare la scena, oltre all’acclamato Oscar a Leonardo DiCaprio, è la vittoria del premio come miglior film assegnato a Il caso Spotlight. Grande cinema d’inchiesta, espressione di un giornalismo virtuoso in via d’estinzione, facilmente accostabile ad un grande classico del passato, il Tutti gli uomini del Presidente di Alan Pakula, premiato nel 1976 con quattro Oscar.
Otto titoli in gara, un solo vincitore. Molto probabilmente non il migliore.
Il caso Spotlight è un buon film, un racconto classico che guarda al passato. Non ha la forza brutale e coinvolgente di Revenant, né la geniale e innovativa narrazione de La grande Scommessa. Non buca il cuore di paura e tenerezza, come Room e nemmeno può vantare lo straordinario virtuoso tecnicismo di Mad Max Fury Road.
Il caso Spotlight trova spazio tra titoli molto più emozionanti portando in primo piano due grandi questioni contemporanee: la crisi del giornalismo e quella della Chiesa cattolica. Due ferite sensibili e due possibili antidoti alla malattia umana che soffoca il domani del pianeta.
Il 2001, oltre all’11 settembre del “mondo che non sarà più come prima” è l’anno dell’inchiesta condotta dal Boston Globe che ha portato ad individuare 249 sacerdoti, nel solo territorio della città di Boston, responsabili di più di 1500 abusi sessuali a danno di minori. Uno scandalo umano, morale, brutale. Che il film racconta, passo dopo passo, archivio dopo archivio, intervista dopo intervista.
A ispirare l’inchiesta il neo direttore Marty Baron, interpretato da un non particolarmente “plastico” Liev Schreiber (visto nella fortunata serie horror Scream, in The Manciuria Candidate, in Omen – Il presagio e, più di recente, in X-Men: le origini e The Butler) che porta al giornale un’impronta di verità, coraggio e determinazione, spingendo i suoi migliori giornalisti a cercare, trovare e denunciare la palude umana fino a quel momento sapientemente insabbiata. Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Walter Robinson (Michael Keaton) e Matty Carroll (Brian d’Arcy James) sono gli altri eroi di questa sfida impossibile, condotta ad armi impari contro un nemico nucleare, la Chiesa e la sua omertà.
La cronaca ci racconta come, tra il 2001 e il 2002, abbia vinto il giornalismo, che pubblicò in prima pagina lo scandalo, vomitando verità scomode contro la Chiesa e risvegliando l’opinione pubblica dal torpore accondiscendente e salvifico.
Il caso Spotlight, con la regia di Tom McCarthy, sceglie la via del racconto sobrio, analitico, quasi documentaristico. Redazione, schedari, indagini, interviste. Il film si svolge sulle scrivanie del giornale, seguendo l’affannosa ricerca che diviene metodo scientifico, a discapito delle emozioni. Una scelta registica, quella del “togliere”, che evidentemente ha premiato ma che lascia molti spettatori perplessi, incluso chi scrive.
Una scelta morale, etica, educativa quella dell’Academy. Che sembra premiare la storia più del film che non evidenzia particolari punti di forza. Non il ritmo, non l’emozione, non l’approfondimento psicologico, non il dramma. “And the Oscar goes to the Journalism”. Il giornalismo quello vero, libero dai poteri, lucido nell’analisi, acuto nella parola. Il giornalismo del secolo scorso, un pallido ricordo del ‘900, quasi un altro Mestiere. Il giornalismo d’opinione, di verità, potere contro il potere, strumento di equilibrio, crescita e cultura. Un nostalgico ricordo per noi che oggi il più delle volte scegliamo le notizie gratuite, perché forse non sono poi così differenti da quelle pagate.
Nella sistemica dimostrazione che gli eroi siamo noi, il cinema americano, incluso il cinema Spotlight, non può che scuoterci. Tra un brivido di nostalgia, un conato di vergogna e un rassicurante mezzo sorriso da happy end, il mondo applaude la statuetta, sperando dal proprio divano che qualcosa succeda ancora, che il mondo sia migliore, che i buoni tornino ad essere buoni.
E vince il secondo Oscar, come co-protagonista assieme al Giornalismo, la Chiesa, che da sola fa rumore. E che, con uno scandalo così epocale, fa ancora più rumore. Persa la patente di limpida purezza metafisica, la Chiesa si lecca le ferite, colpita da scandali sessuali e finanziari. Felice, per lo meno, di avere oggi trovato il suo Eroe Francesco, che attenua il dolore, risciacqua l’immagine e forse cambia davvero il mondo.
Ecco dunque, in un breve e libero pensiero, il mio perché all’Oscar di Spotlight. Un Oscar al Giornalismo e alla Chiesa. Ai temi più che al film. Alla storia più che alla narrazione. Alle intenzioni più che al racconto.
Un piccolo neo nel ricco buffet cinematografico di questa annata di pregio.