Per festeggiarlo, vorrei raccontare una storia. Un amico. Trent’anni fa o giù di lì ha adottato due bimbi sudamericani. Crescendo, gliene hanno combinate di tutti i colori. Alcol, sesso promiscuo, droga: non si son fatti mancare niente. Per dieci anni (“e sei mesi”, precisa l’amico) uno dei due non gli ha rivolto la parola. Ora ha ripreso a parlargli, ma lo chiama solo per nome. “Solo quando beve si lascia andare e mi chiama papà”. 



A lungo ha vissuto in un appartamentino che i genitori hanno preso per lui. A un certo punto ha avuto compassione di un ragazzo del suo giro, un tossico senzatetto, e l’ha preso in casa con sé. 

Ma il tossico non era un tipo facile. Un giorno, quando i vicini si sono lamentati per la musica per l’ennesima volta a volume eccessivo, il tossico li ha affrontati con in mano un machete. È finito in galera. Quando ha finito di scontare la pena, il figlio ha chiesto al padre: “Non andresti tu a prenderlo? Non ha nessuno ad accoglierlo”. 



Il padre va all’uscita del carcere, portando al tossico la sua tenda canadese, tutto quel che possiede. “Professore, cosa fa qui?”: l’altro non crede ai suoi occhi. Si fa accompagnare in un dato posto dove può piantare la tenda. Poi, prima che il professore se ne vada, lo abbraccia, scoppia in lacrime, non sa più come ringraziare. Quarantott’ore dopo si inietta la dose che lo porterà all’altro mondo. “Mi piace pensare — commenta il padre raccontando — che l’ultima cosa buona che ha avuto dalla vita sia stato il mio abbraccio”. 

Il padre, professore, gira scuole di tutta Italia a entusiasmare i ragazzi raccontando loro della bellezza della vita. E, dice, “ringrazio di ogni giorno che mi è stato dato”. Con l’augurio a tutti i papà — me compreso – di poter essere come il mio amico.