Ogni storia ci racconta un frammento di umanità, ci fa vedere il mondo da una prospettiva diversa e sorprendente. La vicenda di Irina Livshun, modella di 31 anni originaria del Kazakistan suicidatasi qualche giorno fa ad Astana per il timore di essere troppo vecchia per il mondo della moda, ci mette in contatto con la domanda più decisiva di ogni esistenza. 



Se per secoli l’uomo si è chiesto “Chi sono?” e ha trovato nella speculazione attorno a questo interrogativo la sua identità e la sua visione del mondo, oggi la domanda più urgente è invece un’altra: “Di chi sono?”. La nostra terra, la nostra umanità, ha bisogno di appartenere a qualcosa, a qualcuno. Questo desiderio di appartenenza è oggi espresso in tre modi molto immediati fra i giovani: il sesso, la fama e il potere. Fin dall’età di tredici anni la sessualità è disinvoltamente praticata per colmare un vuoto, per sentirsi “di qualcuno”. È venuta meno una consistenza affettiva della persona che fa percepire una solitudine estrema dalla quale ci si difende con l’alcol, con la droga o con il gioco compulsivo; ma d’altro canto questa aridità può essere sopita solo da un’appartenenza forte, quasi violenta, che gli adolescenti ricercano nel sesso, ma che presto affiancano con forme più sofisticate di soddisfazione come il successo o — da adulti — la manipolazione, il controllo e la gestione dell’esistenza. 



Non sappiamo molto di Irina, ma ciò che è accaduto è come uno squarcio sul suo dolore, sulla sua paura di sperimentare di nuovo quell’ultimo giudizio su di sé che il venir meno dei contratti di lavoro tornava a farle assaporare, ossia il “terrore di non valere”. Ho visto giorni fa davanti a me una ragazza di diciassette anni scoppiare a piangere davanti alla prof. che le diceva che “non valeva più di 5”. Era chiaro come la docente si riferisse al compito fatto, ma i singhiozzi e le lacrime esplose fragorose in aula facevano intendere che quelle parole avevano palesato alla ragazza l’orrore più grande del mondo, quello di non essere amabile. 



Forse stiamo male, forse siamo avvelenati, ma noi Millennials attingiamo la nostra consapevolezza, il nostro valore, dal vostro sguardo, dalle vostre parole. Non ci venite a dire che dovrebbe essere diverso, che non dovrebbe essere così, perché l’abisso che respiriamo è tale che qualcuno ci deve venire a prendere qui, dove siamo, dove abitiamo. Gaber diceva che quel gesto disperato, penso al suicidio di Irina, ci potrebbe anche rivelare “qualcosa che stiamo per capire”. È vero, ha ragione. Che qualcuno ci ami e che, con il suo amore, questo qualcuno ci salvi: questa è la preghiera che, fra le stelle del Cielo, anche Irina stanotte rivolge a Dio per tutti i giovani della terra. E questo qualcuno per amarci ci deve accogliere, accettare, ascoltare, abbracciarci.

Questa generazione non aspetta, come crede, un “principe azzurro” o una vittoria a XFactor. Questa generazione, come Irina, aspetta solo le mani, gli occhi e il cuore di Qualcuno che venga a farci compagnia. Senza giudicarci, ma solo con la curiosità appassionata che ha portato Cristo a morire sulla Croce. Per salvarci. Per incontrare sul serio la nostra povera carne ferita. E farla Sua.