La direzione nazionale del Pd chiusa per lutto. Ieri alle 18, come da convocazione a firma segretario Renzi e presidente Orfini, l’organo di vertice del partito avrebbe dovuto discutere di: elezioni amministrative di giugno e relativi scricchiolii a Roma e Milano; primarie andate senza lode per la scarsa affluenza nella capitale e forse non senza infamia per le accuse più o meno velate di brogli; coesistenza nella stessa persona di due ruoli come capo del partito e capo del governo; referendum sulle trivelle dove a detta dei renziani il partito ha deciso per l’astensione a sua insaputa. Questi e altri temi, come noto, dividono il Pd; la minoranza dem scalpita, vorrebbe provare a contare qualcosina in più del due di briscola. I Bersani e i D’Alema non si capacitano di come mai il partito storicamente del centralismo democratico, ora che non è più comunista, è più centralista di prima. “Domani faremo i conti”, aveva avvertito il rottamatore toscano.
Invece, ha chiuso per lutto. Si riapre il 4 aprile, di mezzo c’è Pasqua, non è colpa di nessuno. E poi ci saranno ancora ben 13 giorni prima del referendum anti-trivelle: che fretta c’è? Intanto, se il ramoscello d’ulivo della domenica delle palme non ha portato la pace negli animi, si spera che abbia qualche effetto calmante l’omelia di Walter Veltroni: “Non sciupate il Pd!”.
Non che Renzi abbia dovuto inventarsi una giustificazione poco plausibile per chiudere momentaneamente il ring. Il lutto è per un fatto certamente molto doloroso, quale la morte di sette universitarie italiane nell’incidente in Spagna. Dare un segno di vicinanza alle famiglie, come si fa sempre quando muore un parente o un amico, o un compaesano, è giusto, e non è che si possa fare tanto di più: rimediare è impossibile. Fermarsi di fronte alla morte, ossia al mistero della vita che per tutti, ma proprio tutti, è appesa al filo del mistero, chiedersi se c’è una ragione per vivere che valga anche per il morire: questo è, o sarebbe, davvero la cosa decisiva. Tanto importante per cui può valere la pena sospendere altro, anche se di peso. Naturalmente le morti non sono soltanto quelle mediatiche, da telegiornale: ogni giorno in Italia muoiono 12 (dodici) persone, 9 per incidenti stradali (come a Tortosa), 3 per incidenti sul lavoro. Non fanno notizia, non fanno chiudere nessuna direzione, ma non è che non contino niente perché c’è la prevenzione: cioè si danno più multe e per il lavoro abbiamo il Jobs Act.
Invece ieri si sono manifestate due cose abbastanza inquietanti. La prima è un cordoglio tutto fatto di orrenda retorica della “generazione Erasmus”. La seconda è l’indizio chiaro che la democrazia interna al partito — lutto sì, lutto no — è considerata da chi comanda un luogo di “beghe”, una menata con cui non perdere troppo tempo.
La retorica dell’Erasmus è stata sciorinata da tanti dichiaratori che più che lavorare twittano: “Abbiamo perso un pezzo dell’Italia migliore” (Riccardo Nencini, Psi); “l’incidente del bus delle studentesse Erasmus (sic!) è una tragedia italiana ed europea (Mara Carfagna). “Morire in Erasmus (sic!) è inaccettabile” (Matteo Salvini). Non fossero state dell’Erasmus avremmo perso un pezzo meno significativo dell’Italia? Per Micaela Campana, Pd, “Erasmus ha mostrato il suo lato più oscuro”. Il direttore dell’agenzia nazionale Erasmus Indire, non mette in dubbio che “la sciagura addolora tutto il paese”, ma essa “non deve fermare il grande sogno dell’Erasmus”. Sul “noi generazione Erasmus al governo” Renzi ha dato fiato alle trombe a più riprese, nel discorso al Senato per la fiducia, in occasione del semestre di presidenza italiana della Ue e in altre occasioni; ma anche prima, nelle campagna del 2012 per le primarie. Lui però con l’Erasmus non ha mai avuto a che fare; e del suo governo solo la Mogherini: è stata ad Aix-en-Provence per preparare la tesi su religione e politica nell’islam. Il sublime è stato però raggiunto da Graziano Delrio, ministro dei Trasporti considerato a suo tempo testa pensante dello staff renziano: “Nel giorno dell’incidente Erasmus, non possiamo non pensare a come migliorare le condizioni delle strade nel nostro Paese”.
La seconda cosa inquietante: gli organismi del dibattito e del confronto politico sono sentiti, specie da chi governa, come una palla al piede. Renzi questo lo rende molto evidente. Ma la storia viene da lontano. A quelli che contano in Italia il decisionismo è sempre piaciuto. Da una parte il leader cui piace tanto essere l’uomo solo al comando; dall’altra i vecchi riti della brutta politica, gioco di interdizioni e di caselle da occupare lontano dai bisogni del Paese reale. O rinasce, magari dal basso, una passione per il bene comune e per l’interlocutore politico come (possibile) risorsa, o a chiudere per lutto saranno gli scampoli di questa vecchia e arteriosclerotica democrazia.