Come se apparentemente nulla fosse successo. Mi sveglio e nella strada sotto casa c’è la solita vita: il traffico di automobili di chi si sta recando in ufficio o sta portando i figli a scuola, la parrucchiera di fronte a casa — anche lei un’italiana espatriata a Bruxelles — sta aprendo il negozio, i lavoratori che stanno sistemando il marciapiede da settimane hanno ripreso a fare rumori fastidiosi (in questa città si divertono a fare e disfare le strade con conseguenti problemi alla circolazione) e fuori dalla finestra del salotto sbuca un uomo che sta montando un nuovo lampione per l’illuminazione stradale.
Ma poi guardando bene mi accorgo di piccoli dettagli che fino a ieri non c’erano. Le auto che rallentano al passaggio di una fila di 4 o 5 camioncini della polizia con le sirene spiegate, i ragazzi che abitano nell’appartamento del palazzo di fronte hanno appeso al balcone una bandiera del Belgio (l’avevano fatto in precedenza solo per i mondiali di calcio), alcuni poliziotti per strada che guardano con sospetto un’auto parcheggiata.
Accendo il computer e inizia il flusso di informazioni dei giornali. Le perquisizioni nella notte nel quartiere di Schaerbeek che hanno portato al ritrovamento di un ordigno e una bandiera dello stato islamico. Le fotografie degli attentatori dell’aeroporto e la richiesta delle autorità di fornire qualsiasi dettaglio possa aiutare le indagini. Il minuto di silenzio al Parlamento europeo alla presenza del re e della regina, che di solito hanno un atteggiamento low profile ma questa volta sono in prima fila a sostenere il paese. Ma soprattutto un dolore soffocato quando iniziano a comparire i nomi, i visi e le storie delle prime vittime. Apro Facebook dopo due giorni e non ho mai avuto così tante notifiche, quindi un po’ per timore lo richiudo subito. Ho oltre 60 mail di lavoro da leggere e a cui rispondere visto che ieri la giornata è stata impegnativa sotto altri punti di vista. Però c’è il sole e il cielo è dell’azzurro dei quadri dipinti da Magritte.
Mi collego per uno Skype con i colleghi e mi sorprendo a sorridere a quei volti che mi stanno sorridendo. In ufficio c’è un prete per la benedizione pasquale e una preghiera per le numerose vittime di Bruxelles: un gesto che ci unisce a mille chilometri di distanza. Un’amica mi scrive che per andare al lavoro ha preso il taxi — era più sicuro dei mezzi perché circolano a singhiozzo — e il tassista non era del tutto occidentale ma simpatico. E io penso a quella frase sentita così spesso: “Quello che cambia la storia è quello che cambia il cuore dell’uomo”.
Ho sempre avuto un pregiudizio nei confronti dei tassisti in Belgio perché in maggioranza sono arabi e mi fanno paura. Ma magari questo è buono, come quello che si è rifiutato di caricare tutte le valigie di esplosivi degli attentatori perché erano troppe per il bagagliaio. Mi immagino il litigio perché nelle strade di questa città non sarebbe strano assistere a una scena così folle! Continuo a scambiare messaggi con gli amici ma oggi sono io a scrivere per ringraziarli.
La paura rimane e mi chiedo se è sicuro uscire, ma mi rispondo che non si può restare chiusi in casa per sempre. C’è soprattutto lo stupore per gli angeli custodi che ieri si sono presi cura di noi, uno ad uno, e le inaspettate preghiere che ci stanno arrivando da ogni angolo del mondo. Questo aiuta a vivere la vita quotidiana e ad avere speranza nell’Europa anche oggi. Questo è quello che cambia, che ci cambia.