Per quale motivo un ministro deve comunque parlare, se non è preparato e non ha niente da dire? Per quale motivo le sue dichiarazioni, seppur povere e criticabili, criticabilissime, occupano giornali e telegiornali, senza un pur rispettoso commento, una replica? Alla ministra Boschi (e parità uomo-donna non significa uguaglianza idiota di desinenze, stravolgendo la lingua) dell’8 marzo non importa un bel niente, se non per logiche di bandiera. Il Pd la Festa delle donne se la appunta come una spilla benemerita da 70 anni, e ne ha ben donde, visto che il simbolo della mimosa fu scelto da donne comuniste, tra cui la moglie di Togliatti, e che la battaglia per il voto alle donne vide schierarsi in prima linea le donne dell’UDI, insieme alle cattoliche del Cif, ma questa parte della storia non la raccontano mai. La ministra Boschi è giovane, anche se laureata in giurisprudenza, e un po’ di storia patria dovrebbe conoscerla. Oggi ha dichiarato col consueto candore e la consueta autorità (stile: con quella bocca puoi dire ciò che vuoi, anche sciocchezze), che il primo voto alle donne, 70 anni fa “Una grande conquista che si raggiunse però in un clima in parte di diffidenza e di timore”.
Lo stesso che la ministra avverte nel modo in cui “vengono accolte le riforme istituzionali ancora oggi” e cita un giornale del tempo che avrebbe espresso scetticismo e sarcasmo. Può darsi: se le forze popolari che si erano unite per ricostruire il paese, sotto la guida lungimirante di De Gasperi e Togliatti, e l’apertura intelligente del papato avevano appoggiato la decisione di inaugurare la democrazia piena, altri partiti espressero resistenze, di area liberale e azionista. Con un pregiudizio snob e radical chic, potremmo giudicare col nostro senno, che sottolineava la povertà culturale femminile. Posizioni che si riflettevano e si riflettono da allora e sempre nei giornali più influenti, che oggi suonano la grancassa governativa, riferimento puntuale di un partito che di popolare ha ben poco, e basterebbero gli esiti delle primarie a dimostrarlo.
Resta il fatto che non si respirava per nulla in quel marzo ’46 un clima di diffidenza e timore, se le donne chiamate alle amministrative, il 52% dell’elettorato, andarono a votare in massa, l’89% delle aventi diritto, nonostante la povertà culturale fino all’analfabetismo, con passione e partecipazione attiva. A risarcimento di un’ingiustizia, con la volontà di chiudere un periodo di libertà mancate, per le donne e per gli uomini, che non votavano dall’inizio del regime fascista. Altro che l’astensionismo e la diffidenza, quella sì reale, che sperimentiamo oggi.
Quel che più spiace, però, è ancora un volta la strumentalizzazione della storia, piegata agli interessi particolari: la ministra delle riforme azzarda un paragone con le riforme di oggi che, scusate se siamo grossolani, sono di ben altra portata, addirittura possono non essere condivise, senza tema di essere considerati retrogradi, disfattisti.
E’ comprensibile che alla ministra delle riforme interessino le sue, di riforme. Ma il buon gusto e una ripassata ai manuali di liceo avrebbero dovuto suggerire una prudente virata su un terreno meno scivoloso, libero da opportunismi e osanna alle azioni del governo.
Meglio un po’ di retorica, allegra, tra scambi di mimose e cene con le amiche o quella funerea delle bandiere a mezz’asta alla Camera, a memoria dei femminicidi perpetrati in crescendo. O una riflessione su quello slancio, quello spirito che permise alleanze trasversali tra donne, e tra uomini, che potrebbe ogni giorno offrire materia per ragionare su ingiustizie presenti, che vedono le donne ancora sottostimate e usate, dalle usurpazioni in campo lavorativo alla maternità surrogata, ad esempio. Si può fare questo esempio?