Caro direttore,
più sento commentare l’omicidio di Luca Varani più avverto dentro di me una ribellione profonda per i giudizi che vengono espressi. Quello che mi stupisce di più non sono le analisi sociali o psicologiche, inevitabili in questi casi, piuttosto l’impressione che coloro che parlano del giovane ucciso durante un festino notturno alla periferia di Roma si pronuncino quasi che quel male, il male fatto dai due giovani artefici del delitto, non li riguardi, sia un qualcosa che non abiti anche dentro di loro. 



Forse sarà la forte assonanza con la mia età, forse l’essere sceso più volte agli inferi, nei miei inferi, ma il male di quella notte romana io non lo sento estraneo a me e non lo sento così “impossibile”. Mi rendo conto che è necessario uno sforzo enorme per comprendere la mia generazione, ma quello sforzo va fatto, anche perché la grande cordata del cristianesimo, quella che da san Pietro è giunta fino ai giorni nostri, ha iniziato a sfilacciarsi nei nostri padri e si è praticamente disintegrata fra noi Millennials, frutto di una mentalità non solo post-cristiana, ma anche post-Chernobyl, post-umana. 



Quello che forse dal di fuori non si comprende bene è che i ventenni e i trentenni di oggi hanno fame, sono segnati da un’insaziabilità che può certamente sembrare spaventosa, ma che anima molte delle loro azioni e delle loro prospettive. Rimandiamo la definitività di un matrimonio o di una strada ben precisa perché abbiamo paura di non mangiare abbastanza al tavolo della vita, abbiamo il terrore che ci sfuggano le pietanze migliori e abbiamo l’impressione che, se smettessimo di consumare, di divorare l’esistenza, rimarrebbe in noi solo un grande e incolmabile vuoto. Marco e Manuel erano tutti invasi da questa fame diabolica martedì sera, da questo appetito smisurato che si è tradotto, nel loro cuore, nel porre la mente su qualcosa di inaudito e di proibito, il frutto di un albero da troppo tempo giudicato un tabù e che ora, grazie a questa fame di onnipotenza che avevano dentro, poteva infrangersi e restituire quello che ai loro occhi era libertà, compimento, realizzazione. “Sarete come Dio” promette il serpente nel giardino alla donna. L’eco di quella promessa è giunta fino alle orecchie ferite e ingorde dei due giovani romani e lì, in quel fragile pertugio della loro libertà, è partito il delirio. 



La sfumatura che però, a questo punto, in pochi colgono è che quel delirio ciascuno di loro lo ha vissuto attraverso l’altro. Marco e Manuel si sono usati reciprocamente per fare quel male che da soli, nemmeno sotto l’influsso della droga, sarebbero stati capaci di fare. In questo modo hanno portato il bene più prezioso che Dio ha dato agli uomini dopo la libertà, ovvero l’amicizia, a diventare lo strumento più potente della violenza e dell’orrore. Se l’uomo vuole realizzare qualcosa di veramente torbido, qualcosa di indicibile e perverso, ha sempre bisogno di un altro. L’altro è il nostro farmaco e la nostra droga, il nostro rifugio e il nostro alibi.

Attraverso l’altro io posso vivere quella vita che non riesco da solo a sperimentare, posso osare quella trasgressione che con le mie mani non potrei mai compiere. Le relazioni malate sono molte di più di quelle sane e oggi giorno non c’è niente nei giovani come “il gruppo”, “la fidanzata” o “l’amico” che possano innescare quel processo di onnipotenza che l’ingordigia dell’Io brama e anela. 

Gli antichi chiamavano tutto questo “scopofilia”, ovvero il piacere perverso che nasce dal vedere te che fai quello che vorrei fare io. Mi rendo conto che scandagliare questi abissi sia terribile per molti, eppure è questa la nuda verità: i mostri di Marco e di Manuel abitano dentro di noi, esistono davvero, e non si può pensare di dormire sonni tranquilli solo perché noi riusciamo a tenerli in qualche modo a bada; occorre affrontarli. La smisurata avidità e la subdola complicità annichiliscono il desiderio dell’uomo e lo portano a vedere il frutto proibito dell’albero come “buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare pienezza”. Potremmo mai noi perdonare tutto questo? Potrà mai questa assurda carneficina finire prima che un’intera generazione si divori nel morso della sua perversione? 

Io credo di sì, caro direttore. E lo credo perché lo sperimento dentro di me. Dio, vedendo che tale era l’abisso umano, non poté fare altro che scendere Egli stesso sulla terra ad amare l’uomo, ad amare le profondità oscure di un Io che non sapeva altro che odiarsi, che non temeva altro se non il fatto di “non valere”. E’ questa la piccola paura che, chiusa in una stanza, abita i carnefici di Roma: il terrore di non essere amati, l’angoscia di non avere valore. Per questo possiamo dire che solo in un abbraccio comincia davvero la nostra Redenzione. Queste vicende, nella loro oscenità, ce lo ricordano. E forse è per questa estrema consapevolezza che l’uomo vestito di bianco, davanti alle macerie di un’umanità senza amore e senza Padre, ha semplicemente deciso di aprire una porta, la Porta Santa, la Porta del Cuore di Cristo. L’unica Porta che può davvero cambiare tutto. Non mi aspetto che tutti capiscano queste mie parole, caro direttore, ma sono certo che i tanti cuori afflitti di questa terra che queste cose le sentono nelle loro stesse viscere mi comprendano molto bene. Vorrei dire loro che è di quella Porta Santa che noi tutti — poveretti e peccatori — abbiamo realmente bisogno.