Lo confesso sin da subito, sono nato in Sicilia. Anche se romano d’adozione da più di cinquant’anni, il fascino della terra d’origine mi è rimasto intatto. Ne apprezzo l’incomparabile bellezza. Ne ammiro la cultura, che per secoli ha rappresentato l’eccellenza in Europa. Mi piace la sua popolazione, che ha dato all’Italia e al mondo esempi straordinari di intelligenza e capacità. 



Allo stesso tempo, come tutti gli italiani che vi si recano anche solo in vacanza, ho piena consapevolezza delle condizioni a dir poco difficili in cui la Sicilia si trova. E ho chiara percezione delle vicende che hanno insanguinato e continuano a colpire profondamente l’Italia siciliana. Lo stesso nome dell’attuale presidente della Repubblica ci ricorda inaccettabili storie di assassini, violenze, sopraffazioni. 



Sulla realtà siciliana, sulle cause che hanno condotto a tutto ciò, sulle responsabilità antiche e contemporanee, circolano opinioni, o come si usa dire, “narrazioni” a dir poco opposte. Come spesso accade, l’ideologia politica, i rapporti di forza, i soggetti dominanti hanno condizionato la lettura degli eventi. A seconda delle lenti indossate, si sono accentuati i vizi e i difetti locali, o al contrario le imposizioni e le vessazioni esterne.

Adesso anche i giudici della Suprema Corte hanno detto la loro verità, una verità giudiziaria che rischia di costituire un’ulteriore ferita per la Sicilia. Essi, infatti, hanno giudicato sostanzialmente vere alcune affermazioni — contenute in un libro di scuola media — che la Regione Sicilia aveva ritenuto diffamatorie. I giudici hanno disquisito, rispondendo al compito loro sottoposto, sui principi che possono limitare la libertà di insegnamento che si esprime attraverso i libri scolastici, come la correttezza della forma impiegata, il richiamo ai dati di contesto, o la completezza delle informazioni riportate. E hanno concluso che nel caso di specie tali limiti non siano stati superati.



In verità, tutto e il contrario di tutto è stato detto e sostenuto sulla Sicilia, e qualche frase in più o in meno in un libro di scuola non cambierà certo nè il corso degli eventi, nè quanto i giovani allievi possono comprendere rispetto a ciò che essi acquisiscono attraverso altri e più pervasivi canali di apprendimento (internet e i social network) che frequentano assai più dei libri di scuola.

Il fatto davvero grave, invece, è la “cosa giudicata” dalla Corte di cassazione. E’ il suo giudizio che resta, e che costituisce per tutti — a partire dagli stessi siciliani — il “messaggio didattico”. Per non parlare delle centinaia di migliaia di giovani che leggono oggi sullo smartphone la seguente notizia: secondo il giudice più alto in grado, la Cassazione, si può ben dire che la Sicilia è mafiosa. 

Quale sarà la loro reazione? Si approfondirà il distacco tra la Sicilia e il continente? Sarà più facile dileggiare un siciliano solo per il fatto di esserlo? E’ chiaro che si tratta di un messaggio così inaccettabile da essere — questo sì — sostanzialmente falso, perché niente affatto corrispondente né alle argomentazioni, né alla decisione della Cassazione. 

Ciò che meraviglia, soprattutto, è il ricorso allo strumento giudiziario per definire una questione, nella sua fondamenta, politica. Il processo per diffamazione è stato una metafora dell’eccezionalità della Sicilia e dell’incredibile rapporto che si è instaurato in Italia tra politica e magistratura. Non è mai accaduto che un’istituzione territoriale — che amministra milioni di cittadini — si sia ritenuta così colpita da quanto scritto in un libro di testo, da chiedere l’intervento di un giudice a fini riparatori. Ricorrere ad un giudice per tutelare l’immagine pubblica di un’istituzione rappresentativa, e attraverso questa, dei cittadini rappresentati, è stato il segno di una gravissima debolezza. Un errore di calcolo — questo sì politico — dovuto ad una scommessa azzardata. E di cui pagheranno le conseguenze gli stessi siciliani e, in fin dei conti, l’Italia tutta. Sarà il tribunale della storia a giudicare i comportamenti degli uomini.