QUITO (Ecuador) — Sabato l’Ecuador è stato colpito da uno dei terremoti più forti degli ultimi 50 anni in America Latina. E’ stata praticamente rasa al suolo una città turistica della costa ecuadoriana (Pedernales, a 280 chilometri da Quito) e altre città tra cui Portoviejo sono gravemente danneggiate. Le vittime al momento attuale sono circa 400 e più di 2mila i feriti, ma si teme che nelle prossime ore possano aumentare poiché i dispersi sono moltissimi. E’ stato così forte che si è sentito in quasi tutto il paese. Al momento delle scosse, a Quito sono usciti tutti nelle strade; io mi trovavo in macchina a qualche ora dall’epicentro del terremoto e chi guidava non poteva più controllare la macchina tanto che abbiamo dovuto fermarci per alcuni minuti senza capire esattamente quello che stava succedendo. Non siamo potuti arrivare a Quito, la notte di sabato, perché immediatamente le strade più importanti del paese sono state chiuse, invase com’erano dagli smottamenti creati dal terremoto al quale si è aggiunto l’effetto delle piogge.
Subito è partita una catena di telefonate tra parenti e amici per capire se tutti eravamo in salvo. Una nostra amica, che possiede una casa di campagna a pochi chilometri da dove ci trovavamo, ce l’ha offerta per la notte. La domenica mattina abbiamo iniziato a capire dalle prime notizie il dramma di quanto era successo. La paura che ci aveva preso durante il cammino è subito diventata sentimento di impotenza, insieme al riconoscimento che la vita è davvero appesa a un filo. Ti trovi a ringraziare Dio per essere ancora viva e per tutto quello che ti è stato dato e continuamente ricevi.
Mano a mano che arrivavano le notizie aumentava il desiderio di prestare aiuto, perfino di recarsi sul luogo del terremoto, dove ci sono anche amici cari che sappiamo in salvo, ma con i quali da due giorni ormai non possiamo comunicare perché sono cadute le linee, manca la luce e anche l’acqua. Il desiderio di aiutare l’altro è emerso così naturale e potente che subito la domenica, nei parchi di Quito, sono spuntati centri improvvisati di raccolta di beni di prima necessità (acqua, cibi confezionati, carta igienica, vestiti usati) da far arrivare alla popolazione danneggiata dal terremoto. Non solo migliaia di persone hanno donato, ma praticamente tutti hanno dato una mano, senza risparmiarsi, ad organizzare gli aiuti.
Si tocca con mano il cuore umano allo stato originale, quando vuole bene e vuole aiutare, donare. Non posso dimenticare i camion di acqua partire dal parco della Carolina di Quito per essere trasportata con l’elicottero (anche le strade hanno avuto grandi danni ed alcune sono praticamente sprofondate) alle città costiere, e neanche tutte quelle persone che facendo delle vere e proprio catene umane passano cibo e acqua da un posto all’altro per caricarle.
Si agitano nel cuore tante domande: è Dio che vuole il terremoto? Perché? Come fare per stare di fronte a questo mare di bisogno con speranza? Di che cosa ha veramente bisogno tutta questa gente? E’ solo un problema di aiuti? Domande che cambiano qualcosa in noi ancor prima di ricevere una risposta. Comincio a capire che non è sufficiente l’impeto di aiutare, ma che devo condividere insieme al pane e all’acqua qualcosa di più grande, che duri nel tempo.
Intanto, mentre scrivo, aumenta il numero delle vittime, dei corpi ritrovati senza vita. E arrivano nuove scosse. Al lavoro quasi tutti hanno avuto un parente o un amico in una delle zone colpite e che ora ha perduto la casa, o uno o più familiari, o che non c’è più. A Quito, dove vivo, stiamo raccogliendo beni di tutti i tipi da mandare appena possibile. E’ il piccolo riverbero di un amore più grande, quello con cui il Signore della vita ha abbracciato la nostra vita, anche quella di chi non c’è più, facendola uscire dalle macerie del nulla e della paura.