La parola, diciamola subito: “astensionismo”. Uno degli effetti positivi dell’invito, proveniente da alte sfere governative ed ex-governative, ad astenersi dal voto nel referendum del 17 aprile (il sottoscritto ha votato, ma ciò qui non importa) potrebbe essere la “liberazione” — termine preferibile al brutto “sdoganamento” — dell’astensionismo nelle sue varie forme, come esperienza civica fondamentale. E’ noto che l’articolo 48 della nostra Costituzione sembra dire il contrario, quando recita che: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Ma, senza entrare nel campo tecnico dei giuristi e dei costituzionalisti, e senza nemmeno esagerare con le lodi della “Costituzione più bella del mondo”, bensì reagendo semplicemente come uno dei tanti cittadini attenti ai vari nessi fra le parole e le cose, si nota in quella frase una certa abilità stilistica.
In quel contesto infatti l’aggettivo “civico” può essere letto come una sfumatura conciliativa: sarebbe come dire che il cittadino che si astiene dal voto non realizza pienamente le aspettative che di un cittadino si potrebbero avere — non è un cittadino completo e perfetto — ma non è nemmeno un cattivo cittadino, e tanto meno un criminale. Speriamo dunque che non sia diffusa la posizione di chi recentemente asseriva che, nelle campagne non referendarie, chi invita esplicitamente ad astenersi sarebbe perseguibile penalmente.
Ma è arrivato il momento di andare al di là di un atteggiamento puramente difensivo: è il momento in cui gli astensionisti escano dal silenzio pubblico, emergendo dall’ombra di quello che sembra essere un senso di imbarazzo, per non dire di vergogna.
Chi ha mai stabilito che l’astensionismo sia sempre e soltanto una forma di “disaffezione” verso la politica? Non potrebbe essere che l’astensionismo fosse a suo modo una forma di “affezione” a un’idea di politica (una politica come vita della polis, come lavoro e partecipazione dal basso) in quanto distinta dall’attività dei partiti? Chi ha detto che “politica” e (se è permesso questo neologismo) “partitica” siano sinonimi? Non potrebbe darsi che l’astensionismo fosse una forma di disaffezione verso la partitica ma al tempo stesso di amore verso la politica come biologia della polis? Non è più il tempo in cui si possa trattare l’astensionismo come una patologia la cui “cura” sarebbe la politica nel senso tradizionale del termine.
Vi è soltanto un modo per rispondere plausibilmente a queste domande: lasciare che gli astensionisti aggiungano la loro voce al coro della discordia concors civica. Sarebbe non solo interessante ma utile — perfino necessario — che in ogni talk show o tavola rotonda di questi tempi pre-elettorali fosse presente un(a) astensionista, il/la quale parlasse con civica serenità della sua scelta; anche come scelta fra il deporre scheda bianca, o annullare la scheda, o non presentarsi nemmeno al seggio elettorale — che sono comportamenti significativamente diversi.
Fra l’altro, non andare al seggio elettorale non è la stessa cosa che “restarsene a casa”. Quest’ultima espressione è caricaturale e negativa: perché evoca l’immagine di un pigro, di un indifferente che se ne sta in poltrona e pantofole mentre all’esterno ferve la vita.
E invece chi non visita il seggio può essere benissimo un cittadino che opera e agisce nella polis, magari con un misto di odio e amore verso la politica — una forma di quello che in inglese si chiama tough love (Amore esigente? Amore severo? Amore tosto?). E si può anche azzardare la scommessa che quello appena descritto sia l’atteggiamento della maggior parte degli astensionisti. I quali fra l’altro probabilmente variano le loro scelte a seconda delle votazioni e del loro contesto, in certi casi scegliendo l’astensione in una della sue varie forme, e in altri casi invece votando.
Qualche politologo forse criticherà come ingenua questa idea di esortare gli astensionisti a entrare nel dibattito politico. E se invece tale proposta fosse (per ricorrere un’ultima volta all’inglese) disingenuous, ovvero ingenua solo in apparenza? Se ci fosse consapevolezza del potenziale veramente rivoluzionario — pacificamente rivoluzionario — della diffusione dell’astensionismo? Dopo tutto, un’astensione massicciamente diffusa porterebbe a un ridimensionamento radicale di tutto il sistema di potere…
E’ un romanzo fantapolitico? Forse. Ma fino a quando?