La vita sportiva di un atleta conosce i tempi brevi della giovinezza cantata dai lirici greci: è di breve durata, come i sogni, la preziosa giovinezza. Anche la stagione dell’agonismo, per l’uomo di sport, è di durata assai breve. “E’ stata la gara più bella della mia vita” ha proclamato Alex Schwazer nello stadio di Caracalla, appena tagliato il traguardo mondiale della 50km di marcia.
Il primo passo è sempre il più bello, l’indimenticabile. Del primo passo, dopo essere nati, traiamo informazioni-seconde dalle vecchie foto conservate dalla mamma; del primo passo dopo essere rinati abbiamo informazioni-prime nella memoria delle cicatrici. La nascita di Alex Schwazer è stata la medaglia d’oro alle olimpiadi di Pechino 2008, la rinascita è stato l’oro a Roma 2016. Nel mezzo, di tutto un po’.
Il ragazzo ha sbagliato: in tanti sbagliamo. Il ragazzo ha chiesto scusa: non tutti coloro che sbagliano chiedono scusa. Il ragazzo ha pagato: non a tutti viene chiesto di pagare. La gente, quella che non-sbaglia-mai, voleva la morte. Che nello sport si chiama radiazione: per sempre, la chiave nel mare, bandito dalla storia. Lamentano la mollezza della condanna: tre anni e nove mesi.
Per capirne la durata, prendete la condanna inflitta ad Alex e stendetela sulla durata della sua possibile stagione sportiva: corrisponde, più o meno, ai trent’anni dati ad una persona normale per un’accusa di omicidio. Il doping – farmacologico e tecnologico – è una forma di baro, di omicidio dello sport: “Drogare il corridore è tanto criminale, tanto sacrilego quanto voler imitare Dio; è rubare a Dio il privilegio della scintilla” (R. Bannister). Schwazer si è sportivamente suicidato, persino questo è riuscito ad ammettersi, ad ammettere nel giorno della sua Pasqua sportiva: “Col doping ci ho rimesso io”.
Eppure tutto questo sembra non saziare la folla: la folla si sazia solo con la morte dell’altro. Sopra di lui e sulla testa di quel cireneo – ieri cireneo della croce, oggi cireneo della gioia – di Sandro Donati, l’uomo che ha rischiato la sua reputazione perché certo che, se redento, l’uomo brillerà ancora coi colori dell’oro.
Un po’ come se il presidente dell’Associazione Vittime di una strage un giorno accettasse d’affiancare nel percorso di rieducazione colui che la giustizia ha dichiarato colpevole di quel finimondo. Un ossimoro, di quelli nervosi. Questa è la coppia Donati-Schwazer: il paladino della lotta al doping prende per mano lo sportivo additato come “il-drogato” per antonomasia. Impossibile a credersi: oggi è storia dorata.
Scontati trent’anni, si dice “addio” alla galera (anche ad un certo passato, almeno si spera). Chi esce non è un latitante, è un uomo che ha riacquistato la libertà perduta: è la giustizia, quella scritta proprio dagli uomini, tra l’altro. Quelli che non-sbagliano-mai potranno dire di lui, ad oltranza, che è un ex-detenuto, a vita: c’è qualcuno che ha bisogno delle etichette per sopravvivere. In realtà, scontata la pena inflitta, l’uomo è libero. L’atleta è libero.
Per proibirne il riscatto, occorrerebbe rimettere in atto la pena-di-morte: ad invocarla sono in tantissimi, a farla reinserire nella Costituzione italiana non si ha nemmeno il coraggio di pensarlo. Si preferisce evocarla, mascherarla, trincerarsi dietro una giustizia dell’osteria. La pena di morte, nello sport, è la radiazione: ci fosse stata, da quattro anni si parlerebbe di lui come di un ex. E lui avrebbe accettato di pagarne le conseguenze: delle sue scelte prima che della giustizia. Siccome non c’è, allora a pagare dazio sarà, ancora una volta, la frustrazione di chi, accecato dalla voglia di vendetta, non s’accorge che la parabola di uno sportivo è uno specchio nel quale riflettere se stessi: ciò che oggi tutti leggono nella storia di Alex, domattina potrebbe essere l’immagine di qualsiasi altro. Dentro e fuori le logiche dello sport. Forse anche per questo lo sport richiama la vita, è metafora di vita. E nello sport c’è sempre il girone di ritorno: si chiama riscatto.