Come recitava una pubblicità del Bel Paese lanciata qualche decennio fa dalla Galbani, “la fiducia è una cosa seria e va data alle cose serie”.

Di fiducia, infatti, vive ciascuno di noi in ogni rapporto familiare, amicale e sociale e vive un popolo e la comunità civile nel rapporto con chi ne rappresenta la sovranità attraverso l’esercizio della legislazione e del governo della nazione. Due ordini di rapporti che sono fondativi per l’esistenza di un soggetto individuale e politico, del cittadino e della società. L'”io” si gioca in un rapporto con il “tu” attraverso l’intelligenza degli indizi e la mossa della libertà, che convergono su quel singolare atto umano che è la “con-cessione” della fiducia.



Chi chiede fiducia, non meno di chi la accorda, si appella ad un bene più grande di quanto l’aritmetica dei rapporti in azione e la dinamica delle forze in campo non lascino trasparire. Un bene più grande di quello derivante dal calcolo individuale dei vantaggi e degli svantaggi, del mercato della domanda e dell’offerta, delle rivendicazioni e delle condiscendenze, che chiamiamo “bene comune”. Comune, cioè di tutti e di ciascuno, al medesimo tempo e con la stessa forza.



Nessun bene individuale può trasformarsi in un diritto cogente per la società se esso non rappresenta (o, peggio, se calpesta) il bene di un altro soggetto o della comunità. Le convivenze affettive tra persone dello stesso sesso, nella richiesta di un loro riconoscimento giuridico, si rifanno ad una idea di bene per sé che — al di là di ogni considerazione sulla qualità di bene in sé di tali relazioni — non può affermarsi a scapito del bene di un soggetto terzo (ma di pari dignità e maggiore diritto di tutela) che è il bambino e, in virtù del valore sociale della procreazione e dell’educazione, del bene comune di un popolo. E non può neppure affermarsi sovrapponendosi all’istituto della famiglia, che sola ricapitola in sé il compito integrale e inseparabile della generazione, della maturazione della persona e della prima introduzione alla realtà che è offerto ai figli dall’amore coniugale tra una donna e un uomo.



San Tommaso d’Aquino parla della fiducia come di “una speranza fortificata da una solida convinzione. […] La parola fiducia significa principalmente la speranza concepita perché ci si fida delle parole di qualcuno che promette”. E altrove precisa che “la speranza è una certezza per il domani che ha il suo fondamento in una realtà presente”. La fiducia, come figura antropologica della speranza, è la proiezione della stima di oggi sull’incertezza di domani.

La fiducia può essere concessa a chi governa uno stato sulla “solida convinzione” che, attraverso l’esercizio del potere esecutivo e del suo rapporto con quello legislativo, venga promosso il bene comune della società attraverso percorsi normativi che, tutelando i reali diritti di tutti i cittadini, non prestino il fianco — anche in tempi e modalità legislative successivi — all’affermazione unilaterale di aspirazioni e rivendicazioni che vadano a scapito del bene di altri cittadini, già nati o che verranno al mondo, e dell’intera società.

La fiducia concessa al governo nel febbraio scorso dai senatori per il “maxi-emendamento” che ha consentito di far proseguire il percorso del disegno di legge sulle unioni civili è stata un’uscita di sicurezza per alcune norme palesemente incompatibili con il bene comune della famiglia e dei figli, nella speranza e nell’auspicio che quello che era uscito dalla porta non rientrasse surrettiziamente da una finestra legislativa o giudiziaria lasciata aperta nel testo di legge giunto all’esame finale della Camera. Al governo, che a suo tempo si fece promotore e garante di questa strada, era stato chiesto di vigilare perché ciò non accadesse, consentendo un emendamento di garanzia riguardo all’esclusione di ogni possibilità di ricorso alla maternità surrogata, ovunque questa degradante pratica possa eventualmente venire sfruttata a fini procreativi. Questo non è avvenuto ed è stata tradita la fiducia accordata in vista della tutela e promozione di un bene comune a tutta la società attraverso lo strumento giuridico legislativo: il bene dell’affezione e dell’educazione eterosessuale del figlio e il bene della dignità del corpo della donna e della sua soggettività procreativa.

Senza una esplicita esclusione della locazione uterina e della maternità su commissione nel testo della legge sulle unioni civili, sarà ora praticamente impossibile — anche attraverso una successiva legge sull’adozione — impedire il ricorso a questo tipo di pratiche disumanizzanti all’estero e il riconoscimento nel nostro Paese della paternità del figlio nato attraverso di esse. La fessura lasciata aperta nel testo approvato anche alla Camera presta agevolmente il fianco ad allargare la falla attraverso nuove norme condiscendenti o una “interpretazione creativa” dei giudici. Come dicevano i nostri nonni, è inutile gridare “al lupo” quando si è lasciato aperto uno squarcio nella rete dell’ovile.