Ho conosciuto per la prima volta Massimo Bottura quattro anni fa per un evento che avevamo organizzato da lui nel laboratorio del suo ristorante, La Francescana di Modena. Un posto magico in una terra straordinaria. Una lista di attesa infinita se si vuole andare a mangiare. Poi però, si capisce il perché. Ricordo ancora il profumo del suo riso cacio e pepe cotto nel brodo di parmigiano, l’anguilla e il croccantino di fois gras all’aceto balsamico. Ricordo anche lo scetticismo di alcuni invitati e la ritrosia dell’agenzia per quell’azzardo di aver messo l’anguilla tra le portate e la mia ostinazione (ampiamente ripagata visto che anche i più schizzinosi hanno spazzolato tutti i piatti, anguilla compresa) a fidarmi di chi da anni è riconosciuto nel gota della cucina mondiale.



Poi, quando Massimo è arrivato, ci siamo messi a parlare di prospettive, della necessità di vivere la vita guardando avanti e non nello specchietto retrovisore. Per due motivi. Intanto perché l’orizzonte davanti è più ampio e interessante e poi perché la porzione di strada che vedi nello specchietto è piccola e riguarda il tuo passato. Importante, ma non esaustivo.



Così l’altro giorno quando l’ho ritrovato a Milano per presentare “Al Meni”, l’incontro con l’eccellenza della cucina mondiale e 60 produttori locali che si svolge a Rimini il 18 e 19 giugno prossimi (con piatti stellati a prezzi popolari), ero curioso di scoprire la direzione della sua filosofia. E come tutte le persone intelligenti ha parlato di visione: “Oggi le parole fondamentali — ha spiegato in una affollata conferenza stampa al Mercato Comunale di piazza Santa Maria del Suffragio — sono due: etica ed estetica. Questi sono i valori che fanno la differenza oggi”.



E ancora: “Io mi auguro che i ristoratori di Rimini, in questi due giorni di manifestazione, sappiano cogliere l’occasione di offrire a chi si avvicina ad ‘Al Meni’ i prodotti del territorio. Perché se non siamo noi cuochi i primi a capire che dobbiamo proporre quello che il territorio offre, stiamo perdendo un’occasione straordinaria. Gli stranieri vengono da noi per assaggiare il territorio!”. Assaggiare il territorio. Questa è la lezione che è uscita anche da Expo e dalla filosofia che riguarda l’alimentazione e la sostenibilità che sono due elementi strategici per il futuro.

Il nostro Paese è un luogo straordinario che offre potenzialità troppo spesso sottovalutate o sfruttate solo parzialmente. Per mille ragioni. Tra cui il campanilismo, che in certi frangenti può essere un valore, ma che troppo spesso è diventato un limite invalicabile per fare un passo avanti decisivo. Ricordo ancora le parole di un amico direttore di giornale che mi raccontava come la Francia si fosse presentata in Cina come consorzio del vino e noi italiani fossimo andati alla spicciolata, cercando più di difendere gli interessi personali che il sistema paese in uno stato con oltre 1,5 miliardi di clienti in grado di offrire un mercato sia per i prodotti mass market che per l’alto di gamma. 

Come se la tradizione dei comuni e delle corporazioni fosse non solo parte del nostro passato, ma il centro del nostro presente e del nostro futuro. Ecco perché mi ha fatto piacere sentire Andrea Gnassi, sindaco di Rimini, dire: “Siamo il paese dei campanili, ma sarebbe ora di smetterla di intenderli come il luogo della superiorità rispetto i vicini e di farli diventare un punto di osservazione privilegiato e alto per avere uno sguardo più aperto sul mondo che ci circonda e scrutare gli orizzonti lontani”.

Questo non significa disconoscere le eccellenze locali, come ha giustamente sottolineato l’assessore regionale dell’agricoltura dell’Emilia Romagna, Simona Caselli, ricordando che la sua regione è quella con il maggior numero di prodotti Dop e Igp (ben 43!), ma vuol dire comprendere come si possa lavorare tutti insieme per far emergere l’enorme potenziale del nostro territorio. In termini di luoghi, storia, produzione, alimentazione, vini, solo per citare alcuni comparti. E questo può e deve partire dalle realtà locali, che devono rivendicare l’orgoglio delle proprie tradizioni e non seguire le mode. “Il ristoratore romagnolo — ricorda Bottura — non può offrire il salame Milano perché pensa di andare incontro alle esigenze del cliente. Deve proporre quello che il contadino e l’agricoltore locale offrono, perché il turista è affamato di territorio”. 

E il territorio passa attraverso le mani. Quelle del contadino che coltiva le materie prime e quello del cuoco che le trasforma, le valorizza, le esalta. Da qui il nome della kermesse di Rimini, tratto da una poesia di Tonino Guerra, “Al Méni” — ovvero “le mani”. In fondo, il nostro futuro è tutto qui. Nelle nostre mani.