Nemo propheta in patria, l’adagio ben noto nell’italica cultura, ha un solo preciso e inderogabile confine: la morte. Da lì in avanti, tutte le figure alla ribalta sulla scena nazionale (o almeno quasi tutte) che il nostro diffuso provincialismo — quello per cui gli statisti, gli intellettuali, persino i santi ce li hanno soltanto gli altri — aveva sino al solenne momento del trapasso contestato, minimizzato, demonizzato, o — nei casi indiscutibilmente più limpidi — almeno lambito con retro-critiche da bottega (tanto per dire, nessuno è perfetto!), vanno incontro ad un’inevitabile, corale ed emozionale rivalutazione. 



Mi pare che mai come in questo periodo, almeno a partire dal Novecento, dal nostro Paese emerga un istintivo bisogno di maestri, di guide, di saggi, intensificatosi oggi nel quadro del piccolo medioevo culturale che per molti versi stiamo attraversando. E che questa naturale e pressante esigenza cozzi contro appunto la ritrosia con cui la nostra società si rende disponibile a riconoscere per tempo i suoi uomini e donne migliori. Intanto che sono vivi, si intende. 

Assistiamo così in questi giorni alla santificazione — neppure tanto “laica”, a dir il vero —  del “vegliardo” del radicalismo nostrano, quel Giacinto detto Marco Pannella i cui feroci strali, indubbiamente da magnifico combattente, contro la società codificata da troppe (a suo dire) regole e “lacciuoli” hanno accompagnato tutto il percorso della prima e della seconda repubblica, sino ai giorni più recenti, alla già molto celebrata — e francamente però non così tanto sorprendente in articulo mortis — lettera a Papa Francesco. Una lettera di proprio pugno, non a caso e coerentemente più politica che spirituale, ispirata a un modello, mons. Romero, da molti (e penso anche da lui) erroneamente sovrapposta al messaggio della teologia della liberazione (come ho avuto modo di scrivere già in passato su ilsussidiario). 

Il tema del dibattito politico culturale di questi giorni è pertanto ben scoperto: è stato Pannella uno statista nel senso tradizionale del termine? Probabilmente, in questo senso, si tratta di un’attribuzione che avrebbe anche potuto procurargli un certo senso di fastidio, avrebbe probabilmente gradito di più l’appellativo di “saggio” spiritualmente laico, legittimato dal lungo e scomposto capello bianco (altri a tal fine adotta barbe dello stesso colore, filosofeggianti). Per esserlo, condizione essenziale è quella di poter venire assunto come “Pater Patriae” non solo dagli amici, ma pure dagli avversari: nessun cattolico oggi si sognerebbe di non attribuire con pieno diritto ad Enrico Berlinguer il profilo di statista, nessun comunista negherebbe lo stesso riconoscimento nei confronti di Alcide De Gasperi. Un’operazione che nei tempi del post-Tangentopoli è diventata francamente assai ardua, e per “scovare” qualche figure veramente “delle” istituzioni, condivisa — per capirci, come succede negli Stati Uniti, quando il concorrente delle presidenziali chiama il vincitore delle elezioni la sera stessa per riconoscerlo come suo presidente… ) — si deve durare molta fatica.

Così, al seguito del feretro del “grande contestatore”, dal ghigno iroso e consolatorio a un tempo, oggi tutti accorriamo zelanti, nostalgici delle sue vecchie, caotiche e persino scintillanti battaglie: dei suoi scioperi della fame e della sete — sempre e per fortuna opportunamente interrotti (qualcuno ha ricordato recentemente i miei studi sull’Irlanda del Nord, dove Bobby Sands e i suoi seguaci morirono per davvero per attestare un valore a loro modo di vedere patrio); dei suoi comizi indiavolati contro i potenti e gli oppressori (molti dei quali oggi si affrettano a perdonarlo o semplicemente opportunisticamente a  scordarsi di quanto con molta maggiore coerenza egli li combatté senza sosta).

È molto presto per poter dare un giudizio storico complessivo sulla figura di Pannella, peggio in questi giorni in cui i media ribollono di liturgie adoranti e che pure alcuni esponenti, pure istituzionali, del mondo cattolico hanno voluto accostarsi al suo profilo, con forse persino troppo entusiasmo… Considerato che quasi tutte le battaglie del laico — lui avrebbe forse preferito “laicista” — santo (subito?) Marco, sono state direttamente o indirettamente contro la Chiesa, contro il suo magistero sociale, contro la sua morale cristiana. Contro il matrimonio sacramentale (il divorzio), contro l’inviolabilità della vita in entrata (aborto) e in uscita (eutanasia), contro il rispetto del progetto di Dio sulla vita (embrioni, eccetera).  Ma, va qui riconosciuto, anche contro le oppressioni, contro i maltrattamenti nelle carceri, contro le ingiustizie sociali.

Una sola constatazione iniziale, di cui mi piace sottolineare almeno nel metodo la novità, vorrei offrirla qui sulle pagine di chi vuole spesso ospitare miei commenti: l’esperienza storico-politica di Marco Pannella è la cartina al tornasole per poter verificare nelle vicende dell’Italia repubblicana nel suo complesso l’esistenza di due maggioranze sovrapposte, quella politico-partitica e quella dell’opinione pubblica generalmente detta. Quella, per capirci, che pur dando il voto alla formazione cattolica più confessionale che sia mai esistita nel nostro Paese, la Dc, e professandosi decisamente cattolica e pure praticante (almeno sino a un certo punto), accolse via via i richiami referendari del combattente libertario, non tanto credo per aderire in toto alla sua visione di società “british style” (e soprattutto, questa sì, fortemente anticlericale).

Ma perché la società stava cambiando, il ruolo della donna e dei giovani in essa, il benessere poneva domande oltre l’orizzonte dei vecchi principi morali dell’antica radice contadina. In fondo, perché faceva comodo, perché forse la Chiesa non seppe abbastanza interpretare allora con spirito di umana apertura, ma solida tenuta sui princìpi, questi cambiamenti. Allora Pannella, in molti casi, andò bene, quando si voleva vivere una sessualità gratificante all’interno del matrimonio non condizionata solo alla prolificazione, quando le donne chiedevano di poter uscire da unioni mostruose per violenza fisica e psicologica. Ma poi andò oltre, forse troppo oltre.

In tutto ciò, la figura del combattente Marco si sposò così in molte occasioni con esigenze lontane dalla sua visione di fondo, ma di una cosa non gli si può certo muovere critica, ovvero dell’essere stato sempre coerente rispetto al suo quadro di valori laicista.

Una coerenza limpida, che forse oggi anche coloro che gli vogliono accoratamente e, in molti casi, tardivamente non solo rendere l’onore delle armi — che riteniamo doveroso — ma addirittura assurgerlo a modello in un quadro di valori cristiani a lui decisamente antitetico, penso farebbero meglio a non perdere di vista.