Leggo una notizia che viene dal Chianti — abolita la tradizionale partita di calcio per l’ultimo giorno di scuola, perché discrimina “le nostre più brillanti ragazze” e “i creativi, i brillanti, i timidi, gli imbranati” — e mi viene in mente un racconto dei tempi dell’Unione Sovietica. Il racconto, pubblicato tantissimi anni fa dalla benemerita rivista “Russia cristiana”, ora non riesco a rintracciarlo, mi scuso se vado a memoria, chissà che qualche lettore meno sprovveduto di me non riesca ad aiutarmi a recuperarlo, narrava di un villaggio modello in cui il principio dell’uguaglianza era stato applicato con rigore. Dato che non era stato possibile indurre tutti gli abitanti a lavorare in modo rapido e accurato, venne ordinato loro di lavorare tutti in modo lento e approssimativo; dato che non tutti riuscivano ad apprendere con facilità, venne imposto a tutti di imparare poco e malamente; infine, dato che nel villaggio c’era un povero storpio demente, tutti furono costretti a zoppicare e a esprimersi con suoni inarticolati come lui.



Intendiamoci, il presupposto che ha mosso gli insegnanti lo condivido. Io amo poco il calcio, e pochissimo il fatto che troppo spesso sia l’unica modalità di gioco che i nostri ragazzi riescono a immaginare. Nei molti decenni in cui, grazie a Dio, mi è molte volte capitato di organizzare gite, feste, vacanze e simili per gli oratori, le scuole, i gruppi giovanili che ho frequentato, le partite di calcio hanno sempre avuto pochissimo spazio. Non è mai piaciuto neanche a me che le ragazze e i meno dotati venissero relegati a passivi spettatrici e spettatori. Che cosa ho fatto, allora? Ho imparato da amici in gamba a proporre sempre attività e giochi diversi, articolati, in cui tutti potessero partecipare, ciascuno secondo le proprie caratteristiche e attitudini.



Del resto anche l’anelito da cui era nata l’Unione Sovietica non era, nella sua radice, cattivo: quale impeto migliore che eliminare dalla faccia della Terra l’ingiustizia? Solo che l’uguaglianza non si può fare al ribasso. Ecco, a me pare che nell’impeto buono di quegli insegnanti risuoni l’eco di una vecchia ideologia: per eliminare l’ingiustizia bisogna eliminare le differenze. Invece è il contrario: bisogna trovare il modo per esaltarle, per incanalarle, per valorizzarle. 

Certo, non è facile. È più semplice dire “questo non si fa” che immaginare una situazione diversa, in cui ciascuno possa trovare la sua collocazione. Ma è, mi pare, l’unico modo per voler bene davvero a quelli che abbiamo davanti.