Caro direttore,
adesso che i giorni del commiato a Marco Pannella sono trascorsi forse è finalmente possibile provare ad accostarsi alla sua figura, e a quello che ha rappresentato per il nostro paese, senza il livore di chi lo ha ostinatamente ammirato e di chi lo ha, altrettanto pervicacemente, combattuto. 

Il movimento radicale formatosi attorno al leader appena scomparso ha trovato terreno fertile nella società italiana, al punto tale da riscuotere consensi e applausi in modo trasversale, per la straordinaria capacità che esso ha avuto di incarnare una precisa ribellione del cuore umano alla realtà. La vita, le circostanze che la costituiscono, sembrano spesso imporre un vero e proprio “divieto di sosta” al cuore dell’uomo: ci sono pensieri, atteggiamenti e azioni su cui il cuore non può sostare, pena la rinuncia, sempre più frequente, ad una reale maturità umana e morale. Il cuore non può, in un matrimonio, sostare sul pensiero di porre fine a quel legame. Il cuore non può, in una gravidanza, sostare sulla possibilità di interromperla. Il cuore non può, dinnanzi al dolore di un proprio caro, sostare nell’intenzione di spegnere quella vita per spegnerne la sofferenza. 



Questi divieti di sosta, pacifici per la nostra società fino alla fine degli anni sessanta, sono stati contestati da Pannella come esiti di una cultura, di un’ideologia, e non come espressioni di una realtà, di una natura umana che trova nel porsi dei confini la sua forma più alta di autodeterminazione. Il movimento radicale ha affascinato — e conquistato — le masse perché, come l’astuto serpente dell’Eden, ha introdotto nel campo della libertà umana il sospetto che quei “divieti di sosta” non fossero esigenze derivanti dal fatto di essere uomini, ma elaborazioni sovrastrutturali di un sistema che imponeva tali divieti per conservarsi e consolidarsi al meglio. 

La scomparsa di Pannella, al di là dei dibattiti di dubbio gusto sul suo cammino interiore, lascia sul tavolo intatta la questione che il leader radicale ha saputo porre all’Occidente cristiano portando la sfida del ’68, e dei maestri del sospetto, fin nella concretezza delle decisioni diuturne della libertà umana. Con o senza “Marco”, spetta ancora una volta alla Chiesa italiana il delicato compito di offrire un’educazione capace di accogliere i confini dell’agire umano come gli spazi in cui si gioca la reale crescita e la reale maturità della persona. 

A ben vedere è proprio questo che i Radicali hanno messo di più in luce lungo la traiettoria di questi lunghi anni di battaglie: la mancanza di una proposta educativa affascinante che rendesse la loro contestazione ai “divieti di sosta” un evidente “di meno” al desiderio di felicità che ci abita e che ci muove. Quello stesso desiderio che, ad oggi, trova molta più facilità a percorrere le scorciatoie dei pannelliani rispetto alle lunghe strade della consapevolezza e del limite. 

Con Pannella si è chiusa un’epoca, ma non si è affatto chiusa una sfida. Il punto è che, all’orizzonte, se da un lato si scorgono molti che possono aspirare a prendere il posto del leader radicale nella legittima contestazione ai nuovi “divieti di sosta” del nostro tempo, dall’altro si fa fatica a distinguere le sagome di una nuova generazione di educatori, non di ideologi che hanno capito tutto, ma di figli che, come tesoro e come arma, hanno soltanto la forza che nasce dalla loro esperienza. 

“Spes contra spem” scriveva Pannella al Papa. Essere speranza contro coloro che costruiscono sistemi di speranza si potrebbe tradurre e parafrasare. Era questo che il vecchio Marco auspicava che fossero i nuovi Radicali. Il paradosso è che questo è ciò che bisognerebbe augurare che fossero oggi, nella società, i nuovi cristiani. Pronti a mostrare tutta la corrispondenza umana del loro cammino al desiderio del cuore.