L’accusa riversata su una donna diventa in un battibaleno l’accusa di un intero palazzo, fino ad allargare le maglie e farsi colpa peccaminosa di un’intera comunità. L’astuzia del male è rimasta quella di inizio stagione, della Creazione: allearsi col sospetto, sparpagliare le carte con l’arte del generalizzare, tentare in tutti i modi di macchiare la realtà. Per poi, nel mezzo della rovina, destreggiarsi come nessun altro al pari suo: chi è nato fango, nel fango ci sguazza senza eguali.



Il famigerato palazzo dello stabile-3-scala-C di Parco Caivano (Napoli) racconta, in questi giorni, un intreccio di male e di sospetti, di misfatti tra i più viziati. La terra dei fuochi diventa la terra del fuoco incrociato, gratuito. Una storia sporca di due bambini violentati e ammazzati: Antonio Giglio, Fortuna Loffredo. Vicenda che va a calarsi dritta in un incrocio di storie, di rapporti, di rivalsa. Giusto a Napoli, città che è per natura incrocio di sangui, di accenti, di posizionamenti: Raimondo Caputo, Marianna Fabozzi (la mamma del piccolo Antonio), Mimma Guardato (la mamma di Fortuna). Nomi non-più-nomi, nomi propri sostituiti all’istante col nome del reato per il quale sono accusati: il pedofilo, l’infanticida, la collaboratrice. Il popolo non si chiama più popolo, si chiama omertoso. L’omertà è un’accusa, quasi reato. Il popolo è un’entità.



Il male, quando batte il martello, scaglia colpi da capriole: la sua densità è seconda solo a quella del bene, per chi sa accorgersene. Altrimenti è assoluta, anche devastante. Tutti a chiedere giustizia, com’è doveroso. La giustizia, però, è affare serio, appartiene alla semantica dell’amore: parla di giuste proporzioni, s’avvicina alla misura-aurea dell’arte, è lavoro di ago e filo più che di scavatore. Il verbo della giustizia non è colpire, è sradicare: odora di radice, di sotto-terra, di roba ostica da strappare. Per sradicare occorre essere certi che è quella la radice dell’albero malato: andarci a caso, al contrario, è rischiare di far morire alberi ancora sani. Il contrario della giustizia non è l’ingiustizia, il suo opposto è la menzogna: lo sradicare alberi a caso per cercare di togliere l’unico albero malato. La giustizia è di Dio, la menzogna è di Lucifero: “Provava a governare la situazione progettando menzogne. Quanto dev’essere importante per gli uomini la legge, per ridurli a questo” scrive Erri De Luca, napoletano, nel suo In nome della Madre. Parla di Giuseppe, anche qui storia di una paternità difficile da decifrare. Intervenne un angelo, quella volta, e tutto si risolse per il meglio: “Mi aveva creduto, ero felice e calda di gratitudine per lui”. Il male, il patriarca della menzogna, non ha paura di nulla. Eppure, in fronte al bene, trema. Teme. 



La parrocchia di Caivano è retta da don Maurizio Patriciello: scorza dura, materia prima di un Dio ricreatore. E’ il prete che i fuochi li conosce come pochi altri, per questo s’inginocchia: “Non accendete altri roghi sul mio popolo. Già brucia”. Parla di silenzio, di serenità, di consolazione: parole che sembrano complici dell’omertà di cui li si accusa. Invece sono l’esatto opposto dell’omertà: smascherare il male è azione d’altissima chirurgia, mica una partita a briscola. Funziona come nella cura dei tumori: prima d’asportare la massa, occorre ridurla. Cicli di chemio e di radio. Anche il male è razza tumorale, una mamma maligna: va sbollita la rabbia, va diminuito il livore, vanno rasserenati gli animi. Per poi tentare di darci la botta finale, per poi sradicarlo con sentenza-definitiva. Sradicato il male, s’imparerà poi ad usare i termini giusti: non “il pedofilo”, ma la persona accusata di pedofilia. Non l’infanticida, ma la mamma accusata d’aver ammazzato il bambino: è la riabilitazione del linguaggio. Non sono quisquilie: è che assolutizzare il male è fare il suo gioco. Riportarlo alla giusta misura è accerchiarlo. E’ quello che tutti chiedono: per Antonio, per Chicca. Sradicare il male non può diventare una partita di fango: Satana impazzirebbe dalla gioia.