Lo squalo, pesce d’acqua e di profondità, ha appena conquistato la vetta, spazio di cielo, di altezze: lo squalo in cima alla montagna, un quasi-ossimoro. Squalo è il soprannome di Vincenzo Nibali, l’uomo isolano venuto al mondo per conquistare le cime, nella terraferma. L’arrivo di tappa s’impossessa del nome di un santuario: Sant’Anna di Vinadio (Cuneo). I santuari sono luoghi in cui le pietre tramutano in promemoria della fede capace di miracoli. Quando lo Squalo taglia il traguardo, il colibrì è ancora sull’asfalto, il suo fiore d’ibisco è una lingua di strada che pare ergersi in verticale, tant’è irta in pendenza. Colibrì è il soprannome di Esteban Chaves, il piccolo scalatore colombiano che indossa la maglia rosa. Venti giorni e ottanta ore di corsa — che sono strada e pianto, affanni e rantoli, lacrime e fughe, imboscate e agguati, salite e discese. Pelle: bruciata, scotta, strisciata — nulla hanno potuto ai fini della classifica finale: alla partenza della penultima tappa, è un pugno di secondi che li separa. “Tutto sbagliato, tutto da rifare”, con le parole del Bartali nazionale, il santo laico della mistica a pedali.



Quando Esteban s’annuncia sul traguardo, i microfoni gracchiano come uno stormo impazzito “Nibali”!: l’uomo dell’impresa ai limiti dell’impossibile, l’immaginazione al potere, la bellezza del dismesso. La vittoria del non-ancora sul già della sconfitta data come ovvia. Chaves taglia il traguardo e ciò che lo attende, per uomini di sport, è la più disumana tra le leggi: il secondo è il primo degli sconfitti. Quando accade, li si vede scagliare pugni sul manubrio, urtare la bici contro le transenne, gettare sguardi di sbieco a chi ha trafugato la gloria. Coi microfoni sotto il naso, a dare il via al Festival delle Scuse: “L’insalata era da pulire, stanotte non ho dormito bene, la pastasciutta era scotta. Il vento contrario, l’ammiraglia fuori-posto, i compagni affaticati”.



Il Colibrì Rosa, però, non è come lo struzzo, l’uccello grande-grosso da mostrarsi incapace di volare. Il colibrì è un acrobata, è capace del volo-sospeso, unico tra gli uccelli è capace di volare all’indietro. Di guardare indietro: “Se mi avessero detto alla vigilia che sarei arrivato sul podio non ci avrei creduto — confida Esteban con un sorriso inversamente proporzionale alla sua statura, appena giunta la notizia che sancisce la perdita della sua maglia rosa —. E’ la vita, questa è solo una corsa in bici”. Senza la base, signori e signore tutte, scordatevi delle altezze.



Poco più in là, appena dietro il traguardo, lo Squalo-rosa è avvolto in un turbinio di delirio collettivo. Per un attimo s’arresta, dimena le braccia, si scioglie da quell’incantesimo. Torna coi piedi per terra, lui ch’è cresciuto coi piedi a terra. S’accorge che due signori lo stanno avvicinando: si lascia avvicinare, poi li abbraccia, a lungo si lascia abbracciare. 

Quei due signori, che poi scopriremo essere la mamma e il papà di Esteban, hanno viaggiato di notte dalla Colombia per venire in Europa a vedere che effetto fa il loro bambino avvolto nel rosa del trionfo. Appena giunti, Esteban ha perduto la rosa. E loro non hanno saputo fare di meglio che abbracciare chi, quella rosa, l’aveva trafugata al figlio con classe, nobiltà e talento. Senza vergogna sul volto nell’ammettere che nella camera di Esteban è ancora appeso il poster di Vincenzo: “Mamma e papà — confidava pochi metri più in là il piccolo Chaves — sono per la prima volta in Europa per assistere a tutto questo. Questa è la vera vita”. Una sincronia d’intenti che trasforma la sconfitta in vittoria, lo sport in nobiltà, il traguardo in ripartenza. Con la benedizione garbata di Vincenzo che, sotto le intemperie di giornate storte, seppe trarre vanto da ciò che altri mostravano di spregiare: “Sono umano, non me ne vergogno” scrisse su twitter mentre piombavano burrasche sopra lui.

Le classifiche le scrive la strada, la gloria la tributano gli avversari: “Più l’avversario è forte, più la vittoria è bella” disse un giorno quel dio-pelato che è stato Marco Pantani. Forse per questo, appena dopo il traguardo, il carrozzone del Giro s’è arrestato per catturare gli attimi-ultimi dell’epopea rosa: Nibali abbraccia Valverde, Valverde abbraccia Chaves, Chaves e Valverde abbracciati a Nibali. “C’è infine uno che si lamenta tutto il santo giorno e impreca alla maledettissima volta che ha accettato di venire anche quest’anno al Giro — scriveva da inviato Dino Buzzati nel Giro d’Italia del 1949, a proposito del gregario —. Già prevede strapazzi infami, pioggia, disagi e cimici negli alberghi e raffreddori. Brontola, sogghigna, vede tutto nero, si affanna correndo da una parte all’altra, come se qualcosa stesse per precipitare. Lo osservo, quando mugugna e se ne va intorno con quel suo fare da imbronciato bulldog. Lo osservo con grandissimo piacere e mi domando: da quanto tempo non vedevo un uomo così felice?“. Malinconia e bicicletta non vanno mai d’accordo.

Inutile avere una bici leggerissima strascinando in animo un corpo pesante come macigni: lo struzzo non è il colibrì. Futile, pure, truccare il motore per andare più veloci: più snelli, meno spolpati, pimpanti. Inutile, futile: toglietegli tutto, fin quasi ad infangarne l’aspetto, ma nulla potrete contro quella splendida essenza che fa del ciclismo la più illustre tra le metafore dell’esistere. Del sapersi vivi. Di andare avanti e continuare anche quando il traguardo è lontano.

La bicicletta è una penna che scrive sull’asfalto. “E’ la vita, questa è solo una corsa”. Il secondo arrivato sferra un fendente deciso, decisivo, tagliente come denti di squalo. Tanto vittorioso come Vincenzo Lo Squalo: dantesque, piccolo-colibrì Esteban.