NEW YORK — Bandiera a mezz’asta sulla Casa Bianca. Pochi minuti fa, per la quindicesima volta nel corso della sua presidenza, Barack Obama è apparso davanti alla nazione per condividerne il dolore per un’altra tragedia fatta di armi da fuoco e sangue. Tanto sangue come non se ne era mai visto nei pur tragicamente frequenti mass shootings negli Stati Uniti. Mai tanta morte.



I fatti, per quello che si è potuto capire fino ad ora, penso li abbiate presenti. Omar Mateen, giovane nato trent’anni fa a New York da genitori afghani, nel cuore della notte tra sabato e domenica irrompe armato in un night club di Orlando, Florida, prende ostaggi e spara all’impazzata uccidendo 50 persone, finché le forze dell’ordine non lo fanno fuori. Obama, invecchiato ed emaciato, non ha molto da dire. Sembra che potrebbe dare chissà cosa pur di non essere li davanti a quel microfono e a quella telecamera. Siamo tutti con il groppo in gola, non c’è molta voglia di parlare. La morte violenta vorremmo tutti che abitasse molto, ma molto lontano da noi, ma oggi più di ieri sappiamo che non è così. E si resta muti e smarriti. 



Sì, cose da dire chi compare in televisione ne trova sempre, ma spesso il silenzio sarebbe più ragionevole e dignitoso. C’è sempre da dire che le indagini sono ancora in corso, che la polizia è sempre pronta a rischiare la propria vita per l’incolumità dei cittadini, che si prega per le vittime e le loro famiglie. Cose vere, ma prive di valore di fronte all’irrompere della tragedia. E poi c’è la questione gay e lesbians, Lgbt, perché il Pulse, il locale della strage era un locale loro, una ragione di più a rinfocolare l’odio di Omar per la gente del paese che gli ha dato i natali. Ma quei 50 sono anzitutto esseri umani, non omosessuali. Se non lo capiamo noi, cosa può capirne un’uomo che non ha avuto la grazia di scoprire il valore della vita?



Dicevamo di Obama. Il presidente piange con noi, prega con noi, e come noi ha bisogno di capire da dove venga questo “atto di terrore ed odio”, perché mai questo giovane fosse cosi pieno d’odio. Ma quello che oggi mi ha colpito in Obama, più di ogni altra cosa, è stata la sua aria rassegnata. Il presidente ci parlava, ma era come assente, stordito, svuotato. 

Io credo che seppure tante cose siano ancora da chiarire rispetto alla genesi ed alla dinamica degli eventi, la tribolazione di Obama, il suo visibile smarrimento, venissero da una elementare osservazione dei primi fatti certi. Quali? È molto probabile che il giovane terrorista abbia agito da solo, ispirandosi alle gesta di Isis, ed identificandosi con essa come annunciato nella telefonata fatta al 911 un attimo prima dell’attacco. Questo giovane era già finito due volte nel mirino dell’Fbi per presunte sinistre frequentazioni ed in entrambi i casi tutto era stato archiviato. 

Qui non ci sono complotti da sventare, complesse trame da svelare, una macchina del terrore da sconfiggere. Qui c’è un giovane cresciuto tra di noi, educato da noi, un uomo venuto su in questo mondo, che lavorava in questo mondo. E qui c’è anche un nuovo caso di radicalizzazione islamica che si mangia un figlio di questa terra, un nostro figlio e fratello. Capite cosa vuol dire? Vuol dire che se questo è ciò che l’America è capace di generare nel suo ventre, cosa mai potrà generare lanciando bombe, mandando consiglieri militari e ribaltando tiranni? 

Le armi da fuoco? Certo, su queste si potrebbe intervenire. Troppo a portata di mano. Omar, guardia giurata, si è procurato un fucile d’assalto senza nessuna difficoltà. Obama ce lo ha ridetto che su questo qualcosa va fatto, e ci ha lasciato cadere addosso un commento non da poco: “dobbiamo decidere che paese vogliamo essere”.

Eppure io credo che quell’aria rassegnata più che dalle armi da fuoco venga proprio dalla parabola della vita di Omar Mateen. Le pallottole del giovane americano-afghano ci hanno ferito profondamente, ma la sua storia ci giudica e ci costringe a chiederci che paese vogliamo essere.