LIPSIA — Caro direttore, nella nostra scuola, un liceo in Sassonia-Anhalt, stiamo ospitando alcuni ragazzi provenienti dalla Siria e dall’Afghanistan. Una di questi è una ragazza di 18 anni, che ha imparato in modo sorprendentemente veloce il tedesco. Una mia allieva dell’undicesima classe, Marlene Hoffmann, si è fatta raccontare la sua storia, che ho tradotto in italiano e le propongo di seguito (Roberto Graziotto).
“Da qualche settimana abbiamo nella nostra scuola un’ allieva del tutto particolare: ha diciotto anni, occhi verdi, porta un foulard colorato, il suo volto è sempre sorridente ed ha un’intelligenza acuta. La Germania non è un paese privo di pregiudizi. Anch’io non lo sono. Ho pensato che i ragazzi che vanno in una scuola europea sono certamente più preparati di quelli che vengono dal Vicino Oriente. Ma non è così! In tutte le materie questa ragazza è per lo meno preparata come lo sono i ragazzi tedeschi. Per esempio la settimana scorsa ha stupito la nostra insegnante di matematica, perché era l’unica persona nella classe in grado di spiegare una funzione matematica.
È per me motivo di grande gioia che essa sia capitata proprio nella mia classe, ma ascoltando la sua storia posso dire che non è stata solo una gioia per noi. Incontrarla è incontrare il volto della gioia!
Anche se Maya (il nome è stato cambiato, così come ha desiderato la ragazza) ha vissuto alcuni anni in Libano, la sua vera patria rimane la Siria. Dalla Siria è dovuta scappare con la sua famiglia, quando è cominciata la guerra, in direzione di Beirut. Nella capitale del Libano ha avuto la possibilità di andare a scuola. Ogni sera tornava però nel piccolo paese in cui erano sfollati, lasciandosi alle spalle la città con i suoi rumori e le sue attività. Anche in questo paese confinante con la Siria si sentiva l’influenza della guerra, in modo particolare a livello economico. Maya racconta che “per mio papà divenne sempre più difficile trovare lavoro”. Per questo furono costretti a trasferirsi nella capitale, cosa che però non portò un sollievo economico. Il padre, che aveva lavorato come ingegnere, decise quindi di fuggire in Germania, per aiutare la propria famiglia. Per raggiungere la Germania era necessario andare in Turchia. Con l’aiuto di mediatori di clandestini si trattò di imbarcarsi per la traversata pericolosa del Mediterraneo. Le immagini dell’avventura di migliaia di persone nelle condizioni di Maya sono ormai note a tutti. A una settimana dalla sua partenza dal Libano ci fu l’ultima telefonata con la famiglia. Quella è stata l’ultima volta che Maya ha sentito la voce di suo padre. Oggi è considerato disperso ed ha lasciato una moglie con due figlie ed un figlio.
Alla madre non rimase che chiedere aiuto ai parenti. Lo zio e i cugini erano molto disponibili ma non possedevano molto. Un altro membro della famiglia viveva già da cinque anni in Belgio ed era disponibile ad aiutare la famiglia di Maya che aveva appena il minimo per vivere. Così venne il tempo per una nuova fuga, per una nuova partenza.
Raggiunsero la Turchia con il bus, arrivando ad Antakya. Da questa città ci volevano ancora diciannove ore per raggiungere Esmisik, sulla costa del Mediterraneo, da cui avrebbero dovuto raggiungere la Grecia.
“Abbiamo aspettato ammassati in una moschea le persone che ci avrebbero dovuto portare in Europa”, ricorda Maya. Non può che parlare di questa esperienza senza usare la parola “Katastrophe” — e non faccio fatica a capire perché. Dopo la moschea sovraffollata, accade anche di peggio: “abbiamo aspettato insieme ai trafficanti di clandestini per ore in un cimitero, sebbene non si dovrebbero disturbare i morti”. Beh, in quella notte i morti non ebbero un riposo tranquillo.
Infine arrivò nella notte un camion molto grande, di quelli che portano i buoi o i maiali: “eravamo più o meno una sessantina di persone schiacciate come sardine”, racconta Maya. “Forse il viaggiò durò solo cinque ore, ma a tutti noi sembrò come un’eternità. Non potei dormire neanche un momento perché fui costretta a stare in piedi tutto il tempo”. Nello stesso giorno salirono su una delle barche che vanno avanti e indietro in modo illegale tra la Turchia e la Grecia. Alcune ore dopo posarono il piede su una terra europea. Ma non si trattava della meta; il viaggio continuò attraverso la Macedonia, la Slovacchia, l’Austria per arrivare infine in Germania, con un pullman o con un treno.
Dopo il lungo racconto di cui ho scritto qui solo l’essenziale mi rimaneva ancora una domanda: com’è arrivata Maya nella nostra scuola?
Questo ultimo passo è tutto merito suo. Ha imparato il tedesco con incredibile rapidità. Nell’arco di pochi mesi era così migliorata che divenne la traduttrice del gruppo nel corso di lingua e integrazione nella cultura tedesca. Era così brava che i responsabili sono stati attratti dalle capacità di Maya. Così hanno cercato un liceo nella zona in cui Maya potesse andare a scuola.
Infine una buona notizia dalla Croce Rossa, arrivata ieri sera. Il nome di suo papà è registrato, sia in Europa che in Turchia. Almeno una scintilla di speranza dopo esperienze così rischiose e logoranti.
Marlene Hoffmann