Il fatto successe appena dopo la Risurrezione di Cristo. Le guardie, giunte in fretta e furia da Gerusalemme, raccontarono ai capi dei sacerdoti l’accaduto: il sepolcro era stato trovato vuoto. I sacerdoti, convocati gli anziani, stanziarono “una buona somma di denaro” per i soldati: dovevano dire che “i discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato mentre noi dormivamo”. Fecero proprio così, tanto che “questo racconto si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi” (Mt 28,11-15). D’allora, il motivo non è più cambiato: c’è uno spettacolo molto più irritante da contemplare dell’affossamento di un uomo, è la sua risurrezione. Vedere il Crocifisso risorgere dai morti diede alla testa ai sacerdoti: meglio falsare i fatti dicendo ch’era stato derubato. Fu un tentato complotto alla vita.



L’accusa, stavolta, è dannatamente gravosa, “undici volte al di sopra della norma”: Alex Schwazer, il marciatore-redento, staziona ancora una volta sul banco degli imputati. Quasi tutto come all’olimpiade scorsa: “Come quattro anni fa sono qui di nuovo a metterci la faccia, per rispetto nei confronti di chi mi è stato vicino – è stato il suo incipit in conferenza stampa -. Quattro anni fa avevo sbagliato, stavolta non ho fatto nessun errore”.



Le lacrime di allora cedono il posto alla seriosità di chi non accetta di versare lacrime nuove per vecchi amori. Accanto a lui siede Sandro Donati, l’uomo che ha fatto della lotta al doping il biglietto da visita. Il prof che ha fatto di Alex il suo dottorato di ricerca: l’ha fatto cadere mandando gli ispettori a casa sua (luglio 2008) poi, rivoltato come un calzino l’altleta-baro, gli ha teso una mano per aiutarlo a risollevarsi (aprile 2015). Ha messo sul piatto tutta la sua credibilità pur di mostrare al mondo che si può vincere anche senza doping. Finendo, tempi alla mano, per spingersi oltre: non solo si può vincere, si può addirittura andare più forte.



L’accusa è, dunque, spaventosa: la reiterazione del gesto e l’aver macchiato indelebilmente l’immagine del prof che più di ogni altro si è speso per stanare la menzogna nello sport. Le parole di Donati, però, sono spoglie di qualsiasi ingenuità: “Considerando il passato, Alex ha l’identikit perfetto dell’atleta che si dopa all’insaputa del suo allenatore: quale migliore pretesto avrei avuto per abbandonarlo? Questo non accadrà mai, resterò accanto ad Alex”.

“Che credibilità ha uno come Schwazer?” pensa qualcuno. Che credibilità può avere, aggiungiamo per onestà, la Federatletica Internazionale il cui ex presidente, Lamine Diack, venne pizzicato con la sua famiglia tutto impegnato nella truffa e compravendita di positività insieme con l’ex capo dell’antidoping Gabriel Dollé? Nella battaglia tra due soggetti poco credibili, s’infila il terzo: Donati, una spina nel fianco dei dopati e del sistema che li vuole tali. Bestie da vittoria, scriverebbe l’ex ciclista Danilo Di Luca, radiato a vita. Donati, in tempi non sospetti, prende il peggio che offra il mercato – il baro-Schwazer – e ci gioca l’iradiddio della credibilità.

Perché, dunque, rischiare così tanto la faccia? Per due motivi, forse. Per una questione d’umanità: amare l’uomo quando meno lo merita è forse il momento in cui ne ha più di bisogno. Il secondo, assai eccitante da un punto di vista professionale: smascherare la potenza fasulla del doping, con annessi e connessi, partendo dal punto più lontano: da chi aveva ammesso pubblicamente d’averne sposato la logica. Un progetto fatto alla luce del sole: “Con Alex abbiamo intrapreso un progetto unico al mondo, abbiamo messo a disposizione i dati degli oltre 35 controlli ematici effettuati in questo anno e mezzo, ma non abbiamo mai ricevuto risposta”. 

Leggete il seguito, senza ridere se vi riesce: “Abbiamo anche inviato alla Wada una dichiarazione unica al mondo nella quale Alex rinunciava alla finestra oraria, rendendosi disponibile 24 ore su 24 per i controlli”. La risposta della Wada? “La mancata risposta mi ha fatto pensare ad una provocazione di un sistema che continua ad andare avanti con le sue regole, un sistema in cui l’atleta positivo al doping diventa una preda sulla quale scagliare la propria durezza. Ma lo fanno solo sugli atleti deboli”. Detto da uno che, nel tempo, ha circostanziato ogni parola.

Il laboratorio di Colonia è tra i più sofisticati al mondo: nessuno discute la validità delle analisi (anche se, come vuole la prassi, è necessario attendere le contro-analisi). A stupire è la tempistica ad orologeria, tipica di un certo modo di fare politica (anche nella Chiesa): non ti vinco alle urne, lo faccio usando la giustizia. Peccato che la giustizia nasca come un servizio da offrire, non come arnese con cui infierire. E se il progetto Donati-Schwazer (con la benedizione pubblica di Libera di don Ciotti) fosse diventato così ingombrante da apparire pericoloso al sistema? Stavolta i presupposti ci sarebbero tutti: fare i conti con la risurrezione di un uomo, chiedete al Vangelo, per alcune persone sembra sia insopportabile.

Non sarebbe la prima volta che qualcuno rimane colpevole a vita d’aver avuto il coraggio di risorgere, d’aver aiutato a farlo: “L’ho aiutato a crescere tecnicamente, ma magari potrei essere diventato il suo handicap perché l’odio contro di me doveva diventare vendetta” è stata la prospettiva di Donati, dopo aver rivelato delle intimidazioni ricevute nei giorni prossimi al rientro di Alex: “Consigli di persone che hanno un ruolo importante, e che mi dicevano di perdere e di lasciar vincere qualcun altro”. La macchina del fango aveva già rodato il motore: stava recapitando la posta al civico prescelto.

Il 5 giugno 1999 ero una delle migliaia di anime assiepate sulla cima sacra del Mortirolo. Da giorni stavamo accampati lassù, a due passi dall’Olimpo degli dei: di lì a qualche ora sarebbe apparso, tra ali di folla devote, un dio pelato di nome Marco Pantani. Quando da Madonna di Campiglio giunse la bordata della sua positività, il Mortirolo divenne un Calvario. 

Quel giorno vivemmo in diretta il funerale sportivo del nostro idolo: cinque anni dopo, nella notte degli innamorati, fummo messi al corrente del funerale umano. Ancor oggi, dopo dodici anni di Giri d’Italia delle procure, non sono riusciti a smantellare dal cuore dei tifosi la tesi di una provetta manomessa, di un raggiro funesto, di scommesse assurde. 

Alla fine, com’è ovvio, hanno sempre ragione i potenti. Sandro Donati passerà alla storia come il prof d’illusioni, Alex Schwazer si cucirà la radiazione addosso, il sottoscritto – e tanti altri fans della Risurrezione – verranno tacciati di misconoscere l’avidità umana, quella che non guarda in faccia nemmeno chi t’aiuta. Tutto è possibile. Anche che il diavolo stavolta, però, abbia fatto le pentole senza i coperchi: nel giorno in cui il presidente della Repubblica ha consegnato il tricolore agli atleti in partenza per Rio de Janeiro, giunge la notizia della positività di Alex. Con l’aggiunta – da pisciarsi addosso dalle risate – dei controllori che chiedono di entrare nei giardini del Quirinale per fare un test a Elisa Rigaudo, una delle punte della marcia italiana. Perché così tanta sfacciata fretta? Nella storia il Demonio ha mostrato di saper fare gli sgambetti agli altri. Anche a se stesso: sono queste le celebri pentole senza coperchio.

C’è chi s’appassiona agli inizi di una storia. C’è chi si diverte a vedere la fine di una storia (magari accelerandola). La giustizia, e una certa cronaca, s’interrogano se tra gli inizi e la fine ci sia una sequenza credibile. Ogni tanto, come il sommo sacerdote Caifa, divengono pragmatici: “Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!” (Gv 11,50) C’è anche chi, senza dimenticare gli inizi e la fine, s’interroga sul mentre che canta Nicolò Fabi: “Nel mezzo c’è tutto il resto, e tutto il resto è giorno dopo giorno, e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire, e costruire è potere, e sapere rinunciare alla perfezione”.

I giudei pensano ancora che Cristo l’abbiano rubato mentre le guardie dormivano: basta poco per mettere tutti tranquilli. Quasi tutti, tranquilli.