Già alla vigilia delle elezioni europee del 2014, con i venti antieuropei che soffiavano con forza pressoché in tutti i paesi dell’Unione, era chiaro che per l’Europa era necessario “un nuovo inizio”. Nella crisi sociale ed economica, in cui stagnava da anni il welfare europeo, con un’Europa impaurita dalla perdita delle proprie certezze e orientata, anche da forze politiche irresponsabili, a trovare il capro espiatorio nei flussi, per altro mal gestiti, dei migranti, e nell’Europa dei “banchieri” e dei “burocrati”, Julián Carrón — nel documento di Cl che spronava a credere nel progetto europeo in vista delle elezioni del 2014 – già metteva un punto interrogativo su questo bisogno: “È possibile un nuovo inizio?”. 

Un modo per dire che quell’inizio era necessario, ma era già a rischio, se l’Europa non si fosse affrettata a tornare a credere in se stessa, nelle poche grandi parole attorno a cui era nata: persona, lavoro, materia, progresso, libertà. Insomma, in quel documento, come in altre meditate prese di posizione nel dibattito pubblico, si puntava il dito sul ritardo evidente delle istituzioni e dei governi europei a comprendere che il freno posto alla costruzione e all’integrazione europea ne metteva a rischio, nel sentimento popolare, lo stesso progetto. Che egoismi nazionali più o meno dissimulati, ambiguità di partenza nell’adesione all’Unione, come nel caso del Regno Unito, eccessi di tutela, in nome del “rigore dei conti”, della propria posizione dominante, come nel caso della Germania, rischiavano di essere esiziali per i destini dell’Unione. 

Perché con le politiche che ne discendevano — fondamentalmente di stabilità finanziaria pagata dai ceti popolari con politiche di austerità ­— era ben difficile evitare che si diffondesse la percezione diffusa che alla fine l’Europa continuava ad essere un affare per i paesi e i ceti più forti, per chi se la poteva permettere, ma non per tutti. Nell’Europa dell’insicurezza e delle paure diffuse, la prima cosa che si sgretolava era proprio la malta che i padri fondatori avevano impiegato per costruirne l’edificio, dopo decenni di guerre intestine all’Europa, che ne avevano peraltro potentemente indebolito il peso sugli scenari mondiali: la consapevolezza che “l’altro è un bene”, che l’altro non è una minaccia, ma un bene per la realizzazione di un proprio miglior destino. 

A provare l’assunto, che proprio su questa evidenza elementare l’Europa è stata, ed è, un bene per tutti, per gli europei e anche per i non europei, basterebbero i settant’anni di pace e di progressi sociali, civili, ed economici che l’Unione ha procurato alla storia europea. 

Brexit, l’uscita del Regno Unito dalla costruzione europea, è un forte colpo a tutto questo.

Può darsi che da un male venga un bene, che l’Unione sia costretta, proprio da questa uscita, a stringere i bulloni della sua costruzione e della sua identità politica, sociale ed economica, e che alla lunga si possa recuperare all’Europa, di cui è parte, la Gran Bretagna. Quello che però amareggia in queste ore, a leggere i commenti della stampa, non è tanto che siano stati “i piccoli inglesi”, pressati dalle paure e dalla crisi economica, a far vincere Brexit; i ceti popolari e più periferici che così si sono espressi nelle urne. Perché la crisi c’è, e le paure ci possono anche stare, soprattutto nell’incapacità di governare la crisi economica e sociale da parte di chi dovrebbe e potrebbe farlo. Una responsabilità non di poco conto in capo ai governi e alle istituzioni europee, non solo alla leadership britannica. 

La vera colpa di Brexit non è tanto dei “piccoli inglesi” che hanno votato per uscire, quanto dei  “grandi inglesi” che non hanno saputo affidarsi ad altro che a politiche di austerità viste solo a favore della grande Londra come city finanziaria; e messi alle strette hanno giocato l’azzardo del referendum per tenersi in sella, come il premier Cameron, o peggio ancora hanno utilizzato Brexit per scalare il partito conservatore e il potere, come il suo antagonista Boris Johnson. O anche del leader laburista Jeremy Corbin, opportunista e irresoluto a spiegare, proprio ai ceti popolari che rappresentava, che Brexit l’avrebbero pagata soprattutto loro. 

Insomma in un momento decisivo il Regno Unito non ha trovato gli statisti di cui aveva bisogno, di cui avevano bisogno anche “i piccoli inglesi” alle prese come tanti altri europei con le difficoltà di ogni giorno, e che per questo hanno votato contro. E purtroppo con la Gran Bretagna non li ha trovati l’Europa.