— L’Ararat, il sacro monte dove si incagliò l’arca di Noè, all’alba è avvolto dalla foschia, la scheggia di cemento, simbolo dell’Armenia rinata, punge il cielo macchiato ancora dalla luna, nel giardino attraversato da un corridoio di cemento un po’ di terra smossa attende un vecchio uomo: pianterà un albero per arpionare il futuro.
Francesco arriva prestissimo, nella sua prima mattinata armena, sulla “collina delle rondini”. Tzitzernakaberd è il luogo della memoria, il buco da cui guardare la Storia e i suoi orrori, ma anche il simbolo di un popolo e di un paese che non hanno cessato di ricordare e di gridare al mondo l’ingiusta tragedia che li ha travolti. Il massacro della popolazione armena sotto l’impero ottomano, che ha per inizio convenzionale il 24 aprile 1915, è il dato storico imprescindibile. Il fatto che ha segnato il paese. Arrampicarsi sul ciglio di uno dei canyon di Yerevan, su cui è posato il Mausoleo, non è una passeggiata rituale. Chiunque armeno o straniero che sia, se decide di riempirsi lo sguardo della visione del monte sacro innevato e il cuore di ricordi penosi, sa che compie un atto morale. Decide di affermare il primato dell’essere umano sull’odio e la violenza, la vittoria della memoria sulla follia.
Per questo Papa Francesco ha compiuto il gesto che tutti gli ospiti del paese sono invitati a fare. Gettare una rosa nel cerchio di basalto, ombreggiato da 12 lastre inclinate, che custodisce la “fiamma eterna”, il simbolo dell’anima armena che non si consuma, ma si alimenta nel ricordo. Un frammento di bellezza sul buio del male. Il grande male. Metz Yeghérn.
Il Papa è arrivato percorrendo la via dritta che conduce al memoriale, scortato da presidente e patriarchi. Un quarto stato della Verità, determinato e compreso nell’atto, avvolto dal silenzio innaturale di bambini e discendenti delle vittime. I cardinali con lunghe rose bianche in mano, e l’uomo in bianco quasi assente per intensità di preghiera. E’ stato fermo e muto per minuti interminabili, prima di prendere parte insieme al fratello Karekin II ad un rito sobrio e struggente, fatto solo di parole e musica.
Ciò che è rimasto, oltre le rose abbandonate sul basalto e alla commozione di lunghi istanti, sono le parole vergate sul libro d’oro da Francesco. “Mai più”. Mai più tragedie come quella armena, mai più il male folle e cieco, mai più un popolo inghiottito dalla morte. Ha scritto a mano Francesco, nella sua grafia minuta e contorta, che la memoria non va “anaquata” né dimenticata, ha scritto di un popolo e un mondo che attendono da Dio consolazione. La memoria come “fonte di pace e di futuro”, queste sì parole scritte correttamente, tanto sono essenziali per l’angolo di Eurasia che ospita il pontefice.



E’ il Papa che guarda avanti, il Bergoglio che dal passato, per quanto orribile e doloroso, trae sempre la certezza della compagnia di Dio, della Sua visita felice. Lo avrebbe detto poco dopo, volando nel cuore dell’Armenia cattolica, a Gyumri, seconda città più popolosa del paese, ancora ferita dal violento terremoto che nel 1988 la mise in ginocchio, costringendola ad una innaturale contrazione demografica e all’abbandono di ogni velleità industriale. Davanti al piccolo gregge di cattolici arrivati da ogni angolo del paese e persino dalla vicina Georgia, il Papa ha indicato proprio la memoria accanto alla fede e all’amore misericordioso come pilastro indispensabile per edificare, senza fatica, la vita cristiana.
Ad ascoltarlo poveri contadini, gente semplice, dalla devozione elementare, minoranza per costrizione della storia, ma di quelle fortunate, quasi protette dalla vicinanza con una Chiesa, quella armeno-apostolica, che da sempre vanta ottimi rapporti e relazioni strette con l’occidente cattolico. Nell’unica messa celebrata dal Papa in pubblico, nei suoi giorni caucasici, fratelli di chiese diverse hanno vissuto insieme un momento intenso, partecipando ad un rito preludio di un’altra liturgia per la pace. Tra i fedeli un gruppo di bambini vestiti in bianco, come Francesco. Erano scesi accompagnati dalla maestra e da qualche mamma da Mikhaylovka, un villaggio di montagna. Tra le mani uno striscione a dimensione ridotta: Benvenuto in Armenia, scritto in italiano. E poi un numero 301. L’anno in cui Gregorio l’Illuminatore ha convertito Tiridate III, re dell’Armenia, attraverso il miracolo di una guarigione, consegnando per primo, nella Storia, un’interna nazione alla Croce di Cristo. In un numero l’orgoglio dell’Armenia. E quello dei suoi giovani figli.

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