Nonostante abbia fatto un percorso umanistico che alla fine mi ha portato alla laurea in lettere, i numeri mi hanno sempre affascinato. Per quella loro capacità di raccontare. Di sintetizzare una situazione e di dare degli strumenti per farsi un’opinione. Non sono neutri i numeri. Spesso esprimono giudizi più forti e taglienti di mille parole. E oggi vorrei provare a proporne alcuni. Forse poco piacevoli, ma indispensabili se vogliamo fare un passo avanti.
Sono i numeri dell’Italia. Partiamo da quelli della previdenza. Siamo andati oltre i 200 miliardi di euro l’anno per pagare la pensione a 16,5 milioni di italiani. Le pensioni di invalidità stanno crescendo al ritmo di 50mila l’anno con punte al sud che sfiorano il 9% dei cittadini (sic!) che ricevono un sussidio da invalido civile. L’Inps (che aveva un patrimonio di 18 miliardi di euro solo nel 2014) andrà in negativo già quest’anno e nel 2023 le stime parlano di un segno meno per oltre 56 miliardi di euro. L’età media nel nostro Paese è salita a 44,5 anni portandoci, dopo il Giappone, ad essere lo stato più vecchio del pianeta. Gli studi dicono che tra vent’anni gli ultrasessantenni arriveranno al 33% (dal 20 attuale).
La nostra competitività è crollata e, secondo il World Economic Forum, siamo al 49simo posto su 144 Paesi. In Europa abbiamo dietro solo Bulgaria, Romania e Grecia. Abbiamo il record mondiale delle crisi di governo: dal 1970 siamo al livello di 1,2 all’anno. Dietro di noi il Libano, devastato da anni di guerre civili. Se parliamo di tasse, siamo arrivati al 43,5% del Pil. Per le imprese il carico fiscale è al 65,4% dei profitti (in Germania è il 48%, in Gran Bretagna il 33%). Il 4,01% dei contribuenti paga il 32,6% del gettito Irpef, infatti 31 milioni di persone (la metà della nostra popolazione) dichiara di non avere un reddito. Dei 167,6 miliardi di euro di Iva evasi in Europa all’anno, 47,5 sono merito nostro. Nella classifica della chiarezza fiscale siamo al 141esimo posto, tanto che un’impresa italiana deve affrontare ogni anno da 92 a 251 adempimenti fiscali. Per attivare l’allacciamento di una rete elettrica, un imprenditore nostrano ci mette 124 giorni, contro i 28 di un collega tedesco e i 79 di un francese. Nel segmento del food, che dovrebbe essere il nostro fiore all’occhiello, siamo sorpassati a destra e a sinistra. La quota di mercato delle nostre aziende in Cina, per esempio, è dello 0,9% contro il 4,8% dei tedeschi e l’1,2% dei francesi. Non va meglio negli Usa, dove siamo fermi all’1,8%.
L’intero flottante di Piazza Affari vale 340 miliardi di euro, circa 50 in meno della sola Google. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono stati via via ridotti. Siamo fanalino di coda in Europa e nel gruppo del G20, con un misero 1,25% del Pil contro il 4% di Israele e il 2,89% della Germania. Siamo usciti dalla top 10 dei paesi europei che depositano brevetti presso l’European Patent Office, ne depositiamo appena il 2%.
Siamo un Paese decisamente spaccato a metà, dove a un Nord che viaggia a ritmi europei si contrappone un Sud che non è mai decollato. Abbiamo perso il primato nel turismo. Secondo il Country Brand Index, eravamo leader come paese nel 2005 e ora navighiamo intorno al diciottesimo posto.
La quota di turisti stranieri intercettata lo scorso anno è stata del 4,1% (nel 2000 era del 6%) e ci siamo fatti superare anche dalla Grecia. In Spagna il comparto vale il 22% del Pil, da noi arriviamo a malapena al 10%. Secondo le statistiche di Transparency International siamo il paese più corrotto del G7. La corruzione ha un prezzo che la Corte dei Conti stima aggirarsi sui 66 miliardi l’anno (4% del Pil). Spendiamo 110 miliardi di euro all’anno per la sanità (in linea con i Paesi Ocse) ma siamo al ventunesimo posto nella classifica dell’efficienza Health Consumer. Abbiamo 6 milioni di procedimenti civili aperti e per risolvere una lite commerciale (fonte Banca Mondiale) servono 1185 giorni, il triplo che nel resto d’Europa.
Se parliamo di giustizia penale, abbiamo 130mila procedimenti penali che vanno in prescrizione ogni anno. Siamo all’82esimo posto per le dotazioni infrastrutturali, in compenso un appalto su tre è truccato è un’opera pubblica del valore di 100 milioni di euro richiede almeno 15 anni per essere portata a termine. Nello smaltimento dei rifiuti viene commesso un eco-reato ogni 18 minuti. Se parliamo di digitalizzazione, scopriamo che una famiglia su tre al Nord e due su tre al Sud non ha ancora accesso a Internet. Il 38,3% non ha mai navigato. Anche nel mondo del calcio, i risultati non sono più confortanti. L’ultimo giocatore del campionato nostrano insignito del Pallone d’oro è stato Kakà nel 2007. In compenso il gioco d’azzardo (legale e illegale) è esploso e abbiamo una slot machine ogni 143 abitanti, roba da far impallidire Las Vegas.
Questi sono solo alcuni dei dati contenuti nello stimolante saggio di Antonio Galdo che si intitola significativamente Ultimi. Così le statistiche condannano l’Italia. Allora siamo un Paese senza speranza? No, a condizione di ritornare all’etica, prima di tutto. “La corruzione così dilagante — scrive Galdo — chiama in causa anche un elemento che non riguarda né la politica, né l’economia, né la pubblica amministrazione. Ed è l’eclissi del valore dell’onestà. È una parola diventata desueta, fuori moda, talvolta persino disprezzata… L’etica ormai perduta ha modificato perfino i connotati antropologici degli italiani, o almeno una parte importante dei cittadini”.
Ecco, io penso che al di là delle riforme costituzionali e della revisione della pubblica amministrazione, dovremmo ricominciare da noi stessi, dai nostri comportamenti e dai nostri valori. L’autostrada del Sole (755 km), simbolo dell’Italia del boom economico, ha da poco celebrato 50 anni e fu realizzata in 8 anni rispettando il costo preventivato.
Se vogliamo tornare a scalare le classifiche dovremmo ritrovare lo spirito e l’etica che animarono quegli italiani. Che avevano idee diverse, opinioni differenti, ma una visione del bene comune che andava ben oltre il nostro tradizionale campanilismo. Senza il ritorno a quella visione siamo irrimediabilmente condannati a fare il fanalino di coda. Dipende da noi voler tornare ad avere un ruolo da protagonisti. A nessun altro.