Mentre a Fermo si svolgevano i funerali per Emmanuel Chidi Namdi, il 36enne nigeriano morto dopo un pugno ricevuto da Amedeo Mancini, Papa Francesco dice all’Angelus che “gli altri ci interpellano, e quando gli altri non ci interpellano, qualcosa lì non funziona; qualcosa in quel cuore non è cristiano”. Sono parole che fanno fermare e riflettere e oggi, se qualcosa riesce a fermarci e a farci riflettere vuol dire che quella cosa è un miracolo.
Il miracolo, la scoperta, è che il “prossimo” della parabola del Buon Samaritano non è solo uno ma sono due. C’è il prossimo, l’altro, e poi ci sono io, c’è il mio cuore: c’è che se io non riesco a farmi interpellare dall’altro, trascuro il prossimo ma anche me stesso. Perché nulla di peggio per me se sono chiuso: l’altro troverà forse qualcun altro che lo amerà ma io, io che sono egoista, in quale cantuccio della vita troverò riposo? Che meraviglioso rapporto tra il buon samaritano e l’albergatore, ma che vuoto assoluto invece per “i sacerdoti di fretta o che vanno in fretta, che non hanno tempo di ascoltare e per i dottori che vogliono presentare la fede di Gesù Cristo con rigidità matematica” (Papa Francesco a Villa Nazareth, 19 giugno 2016).
Quando il Papa dice che se gli altri non mi interpellano c’è qualcosa di non cristiano nel mio cuore, ribalta le prospettive. Strano, da buon cristiano ho sempre pensato che fosse la mia vita, la mia testimonianza di bravo cristiano a dover interpellare l’altro. Nel rapporto con gli altri mi sembrava sempre di essere quello che ha da dare, da cui si impara. Se il Papa dice che mi devo far interpellare, significa che devo pormi delle domande, ma è strano perché io sono quello delle risposte. Ho i dogmi, i sacramenti, i comandamenti, la Verità. Sono io che devo aiutare il prossimo, devo dare buona dottrina, devo dare la vita. Il Papa dice che è vero ma dice anche che è facile scordarsi di ascoltare, di farsi interpellare, di farsi fare le domande, di farsi interrogare. “Noi possiamo porci questa domanda: chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione? Chi è il mio prossimo?” (Papa Francesco, Angelus 10 luglio 2016).
Il prossimo non è una categoria morale, il povero non è una categoria sociale, sono persone. E non sono le “fasce deboli” o i “nuovi poveri”. Sono Matteo, Marcella, Hibraim, e tante altre singole persone. Non sono quelli al telegiornale o nella pubblicità dell’8 per mille. Il mio prossimo è quello che incontro io, ora, finito l’articolo, pigiato invio e uscito dalla stanza. E il fatto che mi faccia interpellare da loro non è questione tra me e Dio nel silenzio della mia coscienza al momento dell’esame serale. 



Non solo. Se mi faccio interpellare scopro di essere il loro prossimo. È la seconda persona di cui parlo all’inizio. Se scopro il mio prossimo non scopro solo lui ma scopro anche me: di essere io il prossimo loro. Uscito dalla mia stanza, io inciamperò nel mio prossimo e lui incontrerà me.
Come ci riconosceremo? Da un semplice atto. Io mi fermerò. Dice il Papa: “Dipende da me essere o non essere prossimo. La decisione è mia. Dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile”. Io mi fermerò sì o no? Da come risponderò, ci riconosceremo. Se mi fermo davanti a colui la cui vita inciampa nella mia, lui sarà il mio prossimo e io sarò il suo prossimo. Il mio prossimo fa sì che anche io sia prossimo: scoprire uno è scoprirne due. Sembra lo slogan di una pubblicità ma è il segreto della vita e della felicità. Dipende da me. Nessuna categoria morale o sociale potrà stilarmi l’elenco dei miei “prossimi”.
In questo vorrei stabilire ora una differenza tra la “carità ufficiale” e la misericordia, quella di cui parla il Papa. La misericordia è diversa dalla carità prevista. La misericordia è un eterno fuori programma. Nasce da un atto improvviso, spontaneo, naturale, empatico, nasce da un dna cristiano e non da un blasonato curriculum cristiano. La carità la puoi organizzare perché ha i suoi tempi, i suoi riti, i suoi orari, i suoi compiti e ruoli. Le sue efficienze e le sue inefficienze. Tutto calcolato e organizzato. La misericordia  improvvisa. Va per strada e inciampa e si riversa tutta a terra ad inondare e a irrigare. La carità mette tutti in fila. Tu vai dove si fa la carità e al tuo turno la ricevi. La misericordia ti si carica in spalla e ti porta lei dove è possibile e come è possibile. La carità spende ciò che raccoglie e quando è finito, chiude.  La misericordia spende ciò che ha in tasca e anche quello che non ha. E, in futuro, credici, ripassa e salda. La carità senza la misericordia può offendere. La carità senza la misericordia è fatta da chi ha di più verso chi ha di meno. La carità con la misericordia invece lascia sempre a bocca aperta. Ammirati, attirati.
La carità con la misericordia esce dalle mani e dal cuore di chiunque. Il buon samaritano della parabola è samaritano, cioè un abitante della Samaria, e come tale disprezzato dai giudei perché non osservante della vera religione. E l’albergatore me lo immagino ancora lì, a bocca aperta, a contemplare la compassione di quell’uomo impuro. 



Il buon samaritano fa la misericordia, non la carità organizzata. La carità si può fare anche senza Dio, la misericordia no perché è Dio stesso. Ecco perché sono contento di essermi fermato, di essermi fatto fermare da queste parole dell’Angelus di oggi. Voglio imparare a fermarmi, voglio correre inciampando, voglio avere tante domande da fare quante sono le risposte che già possiedo. Voglio che l’altro mi interpelli, voglio ricevere lezioni di vita dalla vita, dalla sua vita.

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