SCHWAZER. La mafia uccide solo d’estate non è solo il bellissimo titolo di un film del regista italiano Pierfrancesco Diliberto, alias Pif. Potrebbe anche diventare, nel brevissimo arco di qualche ora, la decifrazione del dramma, umano ancor prima che sportivo, che si sta consumando — che sta, giocoforza, consumando — la coppia d’oro della marcia, Donati-Schwazer.
C’è una nuvola pesantissima che s’adombra nel cielo delle olimpiadi. A voler “cavare” il proverbiale ragno dal buco, è necessario bandire dal ragionamento parole come cronometro, ripetute, allunghi, dare il benservito a concetti come record, alloro, medaglie per dare il benvenuto a parole di tutt’altro campo semantico: clan, intrigo, mafia, vendetta, agguato. Parole che nulla avrebbero da spartire con la poesia del gesto atletico ma che, quand’arrivano, irrompono con la grazia di un elefante in un negozio di gioielli. Non per nulla sono al lavoro i Ros, si stanno muovendo le procure della Repubblica, il professore Donati stamattina verrà ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia in merito alle affermazioni rilasciate a Repubblica: “Ho paura che possa accadere qualcosa di molto brutto a me o alla mia famiglia. Anche di perdere la vita”.
L’urina conservata dentro le provette è capace di smuove interessi planetari; il prof, che da tre decadi ha fatto della lotta al doping il suo biglietto da visita, purtroppo lo sa bene come nessun altro: “C’è la volontà di spazzare via un atleta e il mio lavoro assieme a lui” è la sintesi snervante del suo pensiero nella conferenza stampa indetta ieri nel quartier generale di Vipiteno. Il perché della faccenda, se solo fossimo in uno stato di diritto, sarebbe roba da dilettanti sbrigare: “Il messaggio è molto chiaro: chiunque parla va messo fuori gioco, chi rompe il muro dell’omertà che c’è sul doping deve pagarla cara”. Concetti familiari anche dentro le patrie galere.
Adesso che li han condotti fin sul ciglio del precipizio, per poi gettarli giù, il prof-di-mille-battaglie ci mette, dopo la faccia, i nomi: dei fratelli Damilano, dell’ex segretario della Fidal Luciano Barra, dell’antidoping senior manager della Federazione Internazionale Capdevielle. Poi lascia scorrere le lacrime: “Questo ragazzo si è messo in gioco con un coraggio che voglio vedere quante persone hanno — calca la voce —. Io l’ho aiutato, conosco il mio mestiere, consentitemi un piccolo atto di superbia. Dopo tre mesi me ne sono accorto: Alex è un super asso”.
Lo smisurato talento di Alex, l’atleta di Racines che le procure ritengono pedinato, inseguito, interessante, che i detrattori dell’informazione non temono di additare come baro, marcio, dopato. Sospettando pure un business dietro la sua risalita dalla scarpata: “Un atleta non può correre con i soldi in tasca. Deve correre con la speranza nel cuore, i sogni nella testa” (E. Zatopek).



Il peccato mortale di Sandro è solo un problema di schiena: è diritta, tutt’altro che ingenua come insinuano le osterie di certi giornali. Il peccato mortale di Alex è Sandro. Un peccato che, impossibilitati a sconfiggere in gara, fanno espiare in tutt’altra maniera: si prepara loro una bomba ad orologeria. E’ un giocattolo semplice-semplice, che mette l’avversario a confronto con il tempo-che-non-c’è. Gli si chiede di potersi difendere, ma la risposta è sempre la medesima: “non c’è tempo”. Parole di chi ha fatto del diritto una scelta: “E’ lampante che c’è stata un’ingerenza esterna fortissima in questo disegno di non far gareggiare Alex a Rio, punire Donati e anche Schwazer — ha commentato l’avvocato Brandstaetter —. Il dramma è che ci hanno impedito di fare il processo”. A vincere così sono capaci tutti, però.
Lui, il grande incriminato? Si presenta in conferenza stampa con la sua tuta-da-lavoro addosso: l’impressione è che stavolta quella seconda pelle non sia affatto disposto a venderla. Non è più solo sua, l’affare è a-due, anche oltre: s’allena, dunque. “Continuo ad allenarmi in questi giorni perché per vincere l’Olimpiade non c’è bisogno di doping. Se tra un anno mi danno ragione, non me ne frega niente. Io voglio andare all’Olimpiade e vincerla, non mi sono dopato, ho dimostrato di essere il più forte”.
Parole asciutte, prosciugate, scolpite. Sudate: “Oggi con Alex abbiamo fatto un allenamento di tre ore, quasi la durata della gara — ha confidato Donati —. Posso solo dirvi che il tempo che ha fatto, sono in grado di farlo solo due-tre atleti in questo momento”. E’ la forza della mente a differenziare i campioni dai quasi-campioni: il doping, quando c’è, s’aggancia subito dopo, non appena prima. Scriveva Robert Musil: “Lo sport si potrebbe definire il sedimento di un odio universale finissimamente diffuso, che precipita nelle competizioni sportive”. O impedendone la partecipazione.
Se questi due non riusciranno a prendere il volo per Rio 2016, aspettate a dire che hanno perduto tutto: semplicemente è terminato il tempo messo loro a disposizione. Un ridicolissimo avanzo di tempo, com’è di tutte le cafonate che orchestra la menzogna. Loro, nel frattempo, si rimettono in marcia: uno dormirà in una cabina-letto dell’Alta Velocità, in direzione di Roma. L’altro, isolato nelle sue montagne, quasi dormirà con la tuta-addosso. Marcerà ancora, nell’attesa che il prof torni, magari con la scorta messa a punto dal Viminale. Nella ciclabile che accarezza l’Isarco, a questo punto, tutto è possibile. L’unica cosa certa è che lo sport non costruisce la personalità, la rivela. E questi due sono ancora in piedi. In marcia verso Rio.

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