Un nuovo episodio di cui è rimasto vittima un disabile all’uscita della discoteca di San Teodoro in Sardegna è rimbalzato sui mezzi di informazione ed è diventato oggetto del dibattito politico. Il nuovo episodio ha uno strascico, è passato dalla realtà al mondo virtuale: il pestaggio è avvenuto nella realtà, le scuse attraverso i social network con un messaggio postato su Facebook. Bisogna far chiarezza per capire i veri termini del problema. La giustizia faccia il suo corso, la questione educativa urge un giudizio che entri nel merito delle questioni e le affronti.
Innanzitutto bisogna chiarire che il problema non è che quella persona di una certa età sia disabile; il punto è che non è ragionevole questo ricorso alla violenza come modalità ormai usuale nei rapporti tra persone, questo il problema centrale e prioritario.
Discoteca, non discoteca, disabile non disabile, il problema è che l’altro non è il punto di riferimento di un rapporto, ma il terminale della propria istintività, rabbia istintiva o, nello stesso modo, oggetto di piacere. Il fatto accaduto a San Teodoro, come tanti altri fatti dello stesso genere, denuncia una perdita del valore dell’altro, ma questa a sua volta non esplode come un fungo in episodi irrazionali, la questione è più grave, è nei normali rapporti quotidiani che non si vede più l’altro in modo positivo, non lo si guarda per intessere con lui una relazione.
È da riprendere con forza un’educazione in questa direzione; e non lo si fa con i discorsi né con le sanzioni, ma con dei gesti umani.
Io sono stato educato a riconoscere una positività nell’altro non perché i miei sacerdoti o i miei insegnanti mi hanno fatto delle prediche, ma perché ogni settimana venivo invitato ad un gesto che si chiamava e si chiama “caritativa”, dare alcune ore la settimana per condividere un bisogno, come quello di fare compagnia agli anziani o di fare i compiti con i ragazzi immigrati. Così, vivendo un gesto gratuito di carità ho imparato a guardare in modo positivo ogni altro. Questa è la strada da prendere oggi, ritornare ad educare i giovani ad uno sguardo positivo, far loro vivere esperienze di condivisione del bisogno attraverso le quali ritrovino se stessi e il gusto del rapporto con gli altri.
Questa è la prima questione, che si ponga con forza la domanda sul bene, e non si rimanga nell’orizzonte del male. Ma ce n’è una seconda: ed è la grave confusione tra mondo reale e mondo virtuale, che anche questa è di tutti i giovani, se non anche degli adulti.



Che un ragazzo usi Facebook per giustificare quello che ha fatto, ma anche per chiedere perdono non ha senso. Ciò che lui ha fatto è reale, è nella realtà che la questione va affrontata. Usare Facebook o wathsapp o qualsivoglia altro network è non guardare in faccia la realtà, è continuare a sfuggire alla sua pressione, al suo giudizio. Non sono i social network lo spazio per affrontare le questioni reali, bisogna anche qui ridare ai social il loro senso, che non è quello di poter sanare tutto, di poter dare giustificazione a tutto. I social sono strumenti di comunicazione, ma la comunicazione inizia nella realtà e ha come orizzonte la realtà, non i social che sono solo strumento. Non si dice di togliere di mezzo i social, ma di valutarne la funzione, evitando di scaricare sui social le proprie responsabilità. Se quel ragazzo effettivamente si è accorto di aver sbagliato, ha da guardare in faccia il disabile che ha colpito, non chiedergli scusa attraverso i social, né vale che tutto il mondo dei social lo sappia, perché questo non ha alcun valore. Le scuse su Facebook sono virtuali, cioè non sono scuse reali, non è fare i conti con la realtà, che invece è ciò di cui quel ragazzo ha bisogno per ritrovare la sua dignità.

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