Le onde si stravaccavano impetuose sulla battigia del mare. Il perché di tutto quel trambusto che s’accese all’ora del tramonto, ci parve chiaro di lì a qualche istante, faceva le veci delle campane quando annunciano una dipartita. Ce l’avessero detto prima, quella domenica ci saremmo vestiti a lutto, evitando quel sorriso sbarazzino ch’è tipico di chi s’affaccia smaliziato sulla vita. 



Fu così che, all’ora del vespro, in quel sempre-presente 19 luglio 1992 partecipammo, in diretta e in costume, al funerale dell’Italia. Alle 16.58, una Fiat 126 rubata, con dentro 90 chilogrammi di esplosivo, esplose a Palermo in via D’Amelio 21, sotto il palazzo dove viveva la madre del giudice Paolo Borsellino. Era andato a trovare la vita: incontrò la morte. 



Prima di lui, il 23 maggio di quell’anno, era toccato al giudice Giovanni Falcone. Dopo loro due, il 15 settembre 1993, la sorte cadde su di un parrino soprannominato don-Treppì, padre Pino Puglisi. Come sfondo, l’identica città: “Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni” (P. Fava). Quei tre uomini, nati per diventare un giorno dei giardinieri, furono decretati colpevoli d’aver indicato un percorso con le loro parole, d’aver saputo intravedere che, sotto-sotto, la terra era ancora molto buona. Con le loro gesta riuscirono ad additare una posizione, prendendo posizione: il coraggio, nel loro codice d’umanità, non fu mai un’attesa. Ebbe sempre i connotati della ricerca.



Dell’uomo Paolo Borsellino, del quale oggi ricorre la ricorrenza della strage, la moglie Agnese lasciò scritto: “Era come se il suo cuore battesse con lo stesso ritmo di tutti i sognatori di Palermo” (Ti racconterò tutte le storie che potrò). Un uomo-semplice, in una vita dai connotati semplici, forte di una grammatica dalla spiccata sensibilità umana. Servì la giustizia — non quella che fu tipica di don Abbondio, di Ponzio Pilato — in parecchi presìdi d’Italia, eppure al suo nome rimase cucito addosso il profumo e gli aromi di una città tentacolare come Palermo, la città che, pur non scegliendosela, accettò diventasse il suo punto d’osservazione sul mondo.

Anche l’indice della sua capacità d’amare, di lasciarsi amare: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Alla conoscenza che precede l’amore — “Prima ti voglio conoscere, poi deciderò se amarti oppure meno” — il giudice Borsellino scelse d’indossare quella che rimase la visione-scandalo della prospettiva cristiana: l’amore che, per una volta, precede la conoscenza. 

Precedenza che è, al tempo stesso, condizione di ogni vera comprensione: “Mi decido di amarti perché sogno di poterti conoscere in pienezza”. Oltre: perché sogno di trasformarti. Di renderti più bella di com’eri quando ci siamo trovati: “Sai cos’è la nostra vita? La tua e la mia? Un sogno fatto in Sicilia. Forse stiamo ancora lì, stiamo sognando” (L. Sciascia). La Sicilia è odore di alga seccata al sole, di capperi, di fichi maturi. Di gelsomini che si sfaldano alla calura. Una terra strana perché “prima gli idealisti li esalta, poi li scarica” (A. Borsellino). Spazio di manovra per uomini e donne solenni che, tessendo assieme le loro domande d’un tempo — chi sono? da dove vengo? verso dove sto andando? qual è il senso della mia vita? — tracciano la mappa della verità, dell’anima: immaginare il futuro, per taluni uomini, sembra diventare il comandamento-sintesi di tutto il decalogo umano.

In via D’Amelio ammazzarono un uomo che aveva respirato la stessa aria che avevano respirato i suoi carnefici. Ancora una volta, anni dopo, nell’inferno rimase vivo solo ciò che inferno non era: il coraggio di chi all’agiatezza della schiavitù scelse l’azzardo della libertà. Senz’attendere che altri, in sua vece, cominciassero a colorare Palermo. L’Italia: quella delle storie fragili, primigenie.