La Brexit sta inquietando senza dubbio la storia e la faccia dell’Europa. Quale che sia il sentimento e la narrazione dominante di questo evento sicuramente fuori dal comune, che esso venga salutato come la legittima difesa di un popolo che si sente in pericolo, o che al contrario venga deprecato come il rifiuto miope ed egoista dei rischi di una convivenza allargata, il suo possibile effetto non lascia tranquillo nessuno (posto che poi effettivamente si avveri, e non sia congelato o neutralizzato, come alcuni prevedono). 



Le spiegazioni più diffuse si accontentano spesso di contrapposizioni manichee – i vecchi tradizionalisti e il futuro rubato ai giovani; il voto popolare e la governance tecnocratica di Bruxelles; le derive di una democrazia “populista” e i programmi delle élites progressiste –, ma così non sembrano aiutarci più di tanto a capire cosa sia veramente in gioco. E non perché non siano giuste tutte le osservazioni sui diversi fattori politici ed economici che hanno concorso a questo esito scioccante, ma perché – a ben vedere – in ogni analisi, in ogni tentativo di spiegazione, resta sempre uno scarto che non si riesce a spiegare, una domanda che rimane in sospeso, e che dà anche un po’ fastidio, perché non ci permette di chiudere il cerchio di una teoria sull’accaduto. 



Ed è uno scarto che non si può colmare semplicemente con il richiamo ai valori fondativi dell’Europa. Certo, questi ideali restano essenziali per l’idea stessa di Europa: il riconoscimento che gli “altri”, a livello personale e sociale, nazionale e transnazionale, sono un bene da accogliere e non un ostacolo da rimuovere per poter realizzare la propria identità e i propri interessi; o che il dialogo è in assoluto la via regia per la convivenza tra le nazioni, dopo l’esperienza dolorosa delle guerre mondiali; o che il bene di una società si realizza con l’inclusione e non con l’esclusione delle diverse identità, tradizioni e storie; che lo stesso mercato può funzionare solo se c’è qualcosa di più grande della legge del mercato a sostenerlo, perché senza questo punto di bene “disinteressato” alla vita del popolo la logica del mercato porta quasi inevitabilmente a distruggere sé stessa. Tutto questo è vero, terribilmente vero. Ma il fatto è che si tratta di ideali tanto universalmente riconosciuti, quanto non più effettivamente “operativi” nella mentalità e nelle pratiche dell’Europa. 



Fa pensare che un ex presidente del Consiglio italiano, europeista duro e puro, commentando a caldo l’esito del referendum inglese, abbia affermato in un’intervista televisiva che questa potrà essere l’occasione per metter mano una buona volta, senza più il freno dei britannici, ad una più rigorosa e seria organizzazione fiscale dell’eurozona. Come pure è quantomeno problematico pensare che l’unica reazione adeguata alla Brexit, da parte dell’Europa che resta unita (ma ancora per quanto?), sia quella di affrettare quanto più possibile il distacco, per poter riprogrammare i costi e le scadenze.

Una posizione analoga, d’altronde, a quella dei fautori dell’uscita del Regno Unito dall’Europa, che nella loro vittoria vedono un po’ ingenuamente l’affermazione dell’identità e dell’indipendenza politica ed economica dell'”isola” dagli “stranieri”. Insomma, lo scarto resta aperto, ostinatamente, a non far tornare i nostri conti.

E se i conti non tornassero proprio perché quello scarto che accompagna ogni analisi, rendendola non risolutiva, ci spinge paradossalmente a renderci conto di alcune questioni decisive del nostro stare in Europa e, forse, del nostro stesso stare al mondo? A me pare che si possano individuare almeno due questioni brucianti, tra le diverse altre, che riemergono da questo scarto, e che forse possono costituire una traccia da seguire per cercare di capire cosa è avvenuto, e soprattutto cosa chiede oggi a tutti noi.

La prima è che l’esperienza umana, non dell’umanità in senso generico e indistinto, ma dei singoli esseri umani in carne ed ossa, quelli senza dei quali non esisterebbero neanche i popoli, le nazioni e le società – questa esperienza dell’umano, dicevo, viene concepita in maniera sempre più “astratta” da parte della cultura, della politica e della finanza che stanno alla base dell’Europa (e del mondo intero) oggi. Questo processo di progressiva astrazione dell’umano consiste nel concepire la vita degli individui non più a partire dai loro bisogni irriducibili (il pane e il lavoro, ma non meno il significato per cui vivere e il desiderio della felicità), bensì dalla loro conformità a parametri e a procedure utili al funzionamento della società. È in questa astrattezza che si smaschera l’illusione di ogni progetto tecnocratico per risolvere i problemi delle società europee (e certo non solo europee), che spesso si rivela, proprio per questo, inefficace o irrealizzabile. 

Questo però non significa chiudere la questione demonizzando chi detiene il governo politico-finanziario dell’Unione europea, e che certo ha le sue precise responsabilità. Il problema è più ampio e più radicale, appunto perché è un problema di cultura e di mentalità diffusa, direi proprio a livello “antropologico”. Ed è un livello a cui tutti partecipano, non solo i leader ma anche le persone “normali”, che il più delle volte si concepiscono anch’esse a partire da ciò che una procedura legislativa – statale o comunitaria – può e deve garantir loro. Tutto procedurale, tutto garantito dal meccanismo; e si protesta, insoddisfatti, solo quando il meccanismo si inceppa e non garantisce più. Ma in fondo ci si ribella solo per il fatto che dovrebbe funzionare meglio, e meglio garantire i nostri diritti. 

Che vince l’astrazione dell’umano significa che in realtà ogni storia personale, dei gruppi sociali, dei popoli, mira a uniformarsi in una tecnica di controllo e di ottimizzazione del profitto; ma quando la tecnica crea problemi di applicazione, quando essa si arresta, comincia a vedersi il vero problema: che non ci sono più degli “io” in carne ed ossa dietro le procedure che dovrebbero esserne i mezzi di espressione.

Senza garanzie scompaiono anche coloro che dovrebbero essere garantiti. Che oggi la crisi di queste garanzie apra la possibilità inedita di porsi la questione su chi siano effettivamente, e perché valgano coloro che devono essere garantiti, è un esito imprevisto ma davvero interessante del nostro momento storico.

La seconda traccia che segnalo, e che discende immediatamente dalla prima, è che la libertà diviene sempre più formale. In cosa consiste questo progressivo formalismo della libertà? Nel fatto che da un lato viene estremamente enfatizzato il diritto ad essere liberi nelle proprie scelte, vale a dire sciolti da qualsiasi condizionamento che ci impedisca di fare quello che vogliamo di noi stessi; ma dall’altro lato, di fronte a questo gioco estremo del nostro libero arbitrio, sembra non esserci nulla per cui valga veramente la pena giocare e impegnare la propria libertà. Come una volta ha scritto don Luigi Giussani (richiamato di recente da don Julián Carrón nel suo libro su La bellezza disarmata, proprio per rispondere alla domanda se sia possibile un nuovo inizio nella storia europea), nel nostro contesto storico “[i]l pericolo più grave non è neanche la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano. E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito”. Così che la crisi in fondo si presenta come una “battaglia tra la religiosità autentica e il potere”.

Dove sta questo potere? A Londra o a Bruxelles? È il potere dei tecnocrati europei o della finanza mondiale? Il fatto è che si tratta sempre più di un potere anonimo, senza volto nel senso di puramente procedurale, come si diceva prima. Riprendendo e acuendo un’intuizione di Pasolini, Giussani permette di riconoscere che il potere (chiunque sia colui o coloro che lo detengono in un dato momento) ha come obiettivo quello di indebolire la libertà delle persone, cioè di inibire esperienze significative di vita personale e di rapporti sociali che creino qualcosa di irriducibile alla Grande Procedura Tecnica. Ma mentre per Pasolini il punto era contrapporre la libertà (di una natura antica e sacra) alla tecnica quale sigillo del mondo moderno, quello che Giussani ci suggerisce è che una libertà in atto, che si impegni con un senso infinito della vita e dell’essere, può riprendersi la procedura e servirsene, come un uomo in carne ed ossa può servirsi degli strumenti più diversi per esprimere il suo amore per la persona amata. Il punto infiammato sta nel riconoscere che il mondo e gli altri esseri umani ci sono dati perché sia possibile un’esperienza di amicizia. E anche di interesse, perché no?, se è vero che il dialogo e la relazione con gli altri è la più importante condizione per la realizzazione di noi stessi.

Perciò è soltanto se vi saranno esperienze personali e comunitarie in cui possano diventare nuovamente possibili e praticabili quei valori, e quindi possa nascere un nuovo giudizio su di sé e sul mondo, che potrà rinascere l’Europa (la terra della crisi e insieme la terra del dialogo, come ha richiamato di recente Papa Francesco). E questo vale per il comune cittadino non meno che per il capo di Stato. Se ci pensiamo, dunque, l’uscita dell’Inghilterra dall’Europa non rappresenta solo uno strappo e un fallimento, ma anche, e molto di più, una sfida e una possibilità di costruzione per tutti noi “europei”.