Operosi, disciplinati, indistinguibili, silenziosi. Chiusi. Sono i cinesi d’Italia, quelli di prima generazione. Accanto a loro, i figli, nati o cresciuti qui. Meno silenziosi, meno chiusi, meno disciplinati. Una seconda generazione difficile. Nella notte tra il 23 e il 24 febbraio di sette anni fa, nel 2009, una festa privata nel cuore della Chinatown milanese finì nel sangue: un uomo, cinese, decapitato col machete, altri cinque feriti gravissimi. Un regolamento di conti tra bande rivali, cinesi contro cinesi. Un telereportage, firmato da Alessio Lasta, sul delitto e su quel che lo aveva determinato si conquistò il Premio Ilaria Alpi. Era stato un primo tentativo giornalistico di sollevare il velo sulla nuova e complessa realtà dei cinesi d’Italia.
Sono passati sette anni e nella vera Chinatown italiana, Prato, il clima che si respira in questi giorni fa pensare più al machete che al telaio automatico delle fabbrichette tessili tutte cinesi che anno dopo anno si sono conquistate spazi sempre più ampi in un settore industriale dai margini ristrettissimi. La sorpresa non è la malavita. È dal 2006 che Roberto Saviano, con “Gomorra”, ha fatto luce sulla mafia cinese e sul potere enorme acquisito in una delle città-Stato della mafia italiana, Napoli. La sorpresa è la rottura degli equilibri. È la vera novità, che sconvolge il tran-tran – peraltro mai tranquillo – di forze dell’ordine e inquirenti, che in particolare a Prato ma ovunque, anche a Milano, ci sia una forte comunità cinese, erano abituate alla loro capacità di “vedersela in privato”, di regolare i conti a casa loro, senza sconfinare, senza turbare la quiete pubblica.
Quel che è successo a Prato negli ultimi giorni, e che ha fatto riaccendere la polemica e le angosce dopo il terribile rogo della Teresa Moda, la fabbrichetta dove nel 2013 finirono arsi vivi sette operai, sono da un lato gli episodi di violenza tra e soprattutto contro i cinesi, da parte di altri gruppi immigrati, di diversa nazionalità, soprattutto magrebini; e dall’altro, la protesta dei cinesi integrati ma ormai indocili, di seconda generazione, ormai fattisi comunità politica – e dotati addirittura di associazioni di rappresentanza, come l’ambigua “Cervo bianco”, i cui leader sono stati arrestati con l’accusa di aver organizzato ronde illecite per farsi giustizia privata contro gli aggressori. Una protesta contro gli altri immigrati “che non lavorano” e li aggrediscono. Contro le autorità italiane, ree di non difenderli. Contro chi, per converso, addebita loro le conseguenze anche sanguinose, di una vita condotta sotto il livello della legalità.
La linea delle autorità è quella dura: il governatore della Toscana Enrico Rossi non vuole abbassare la guardia dei controlli, anzi. Controlli nelle fabbriche, contro le condizioni ancora subumane in cui troppo spesso vengono mantenuti i dipendenti; controlli fiscali, controlli sugli illeciti gravi, innanzitutto il traffico di droga che a volte, anzi spesso, si annoda tra le balle di tessuto. Controlli che però non sono mai abbastanza e per ora non risolvono. Ma se è vero che scippi e rapine a carico dei cinesi si moltiplicano, dice il governatore, ciò accade anche perché la comunità di Chinatown utilizza sempre e solo denaro contante, alimentando una spirale di “nero” – dal produttore al consumatore – che sempre più spesso sta diventando una spirale di morte.
In questi mesi drammatici e aspri, scanditi in tutta Europa dalle polemiche, dagli insulti razzisti, e dalle tragedie in mare per la pressione incontenibile dei migranti di tutte le razze ai nostri confini, il caso cinese è a se stante. I cinesi non immigrano clandestinamente aggrappati a un gommone sovraccarico. Non confinano, le loro terre d’origine, con il Mediterraneo, né con i confini terrestri dei Paesi-miraggio della ricca Europa: i cinesi arrivano in Italia grazie a un meccanismo bene oliato di clandestinità fattasi falso permanente, documenti perfettamente imitati, identità irriconoscibili dietro nomi tutti uguali e fattezze che all’occhio occidentale appaiono tutte, sempre, quelle di parenti stretti.
Le statistiche sono ridicole: i cinesi residenti in Italia sarebbero appena 271 mila, prevalentemente di Taiwan ma non solo; concentrati per quasi la metà in Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna. Ma le cifre vere sono di almeno il doppio. Stivati in appartamentini allestiti da “caporali” della loro stessa nazionalità, resistono sempre meno e sempre peggio al nuovo schiavismo che trovano ad accoglierli, una volta sbarcati nella terra promessa. E in questo, Milano non è diversa da Prato. E in questo i controlli sono scarsi nella “capitale morale” come in quella toscana delle “pezze”.
I giovani immigrati, o i figli di quelli che arrivarono vent’anni fa, parlano bene italiano, si sono nutriti meglio dei loro genitori, sanno – a differenza di essi – che lavorare dodici ore al giorno per sei giorni alla settimana e ottocento euro al mese non è giusto. E, complice la crisi, non sempre, non tutti resistono alla lusinga e al fascino del crimine delle gang di quartiere, con un capo che provvede a loro in ogni cosa – e per cui lavorano come corrieri della droga in feste private.
Ma c’è anche e sempre più forte un’altra Cina, in Italia, quella di Sije Xie ad esempio, l’imprenditore giovanissimo che nel 2015 ha fondato a Milano Woodhouse, per offrire alloggi low-cost ma di qualità a studenti cinesi e italiani, con una nuova forma d’ospitalità: partecipando attivamente alla vita dell’alloggio si possono avere prezzi agevolati e usufruire di una serie di servizi che forniscono gli strumenti necessari per una vita al di fuori del proprio Paese d’origine e per un’integrazione a 360 gradi. MoneyGram – il colosso mondiale del money-transfer – l’ha premiato con il suo “Award” per il 2016. Dovrebbero essercene di più, come Sije, e non solo a Chinatown.