Caro direttore,

I fatti avvenuti durante queste ultime settimane sono così significativi che appare impossibile astenersi dal tentativo di comprenderne la reale portata per la nostra vita. In tanti, in quest’epoca “social” sovrabbondante di commenti e di commentatori, hanno analizzato le diverse situazioni: dalla cosiddetta “Brexit” ai 65 anni di sacerdozio di Benedetto XVI, dalla strage di Dacca fino alle peripezie politiche, economiche e sportive del nostro caro paese.



Abbiamo parlato tanto, ma si è capito poco e ciascuno è tornato a casa (o ha chiuso il giornale) mantenendo la sua, molto spesso confusa, opinione. Nel frattempo la vita procede tra le sue gioie e i suoi dolori, i suoi lutti e le sue inattese soddisfazioni. L’impressione è di assistere a quella che il Vangelo definisce “sclerocardia”, termine che indica sì la durezza del cuore, ma anche la sua rigidità, la sua incapacità di dialogare con l’esperienza umana nella sua interezza.



C’è come un filo interrotto fra quello che ciascuno di noi vive nella propria quotidianità e i “fatti della storia”, rottura che rende necessario — per conoscere le cose — l’intervento di un terzo fattore oltre l’Io e la realtà, ossia l’intervento dell’esperto, del tecnico, del mentore. 

Questo è ancor più sorprendente quando accade in seno al cristianesimo, cioè dentro ad un avvenimento in cui Dio — facendosi uomo — non ha fatto altro che ridestare il cuore dell’Io per permettere ad ogni persona di essere libera e adulta dentro la complessità della vita. Accettando di permanere dentro la relazione con Cristo l’uomo si rende autonomo dagli “elementi del mondo” e diventa capace di muoversi curioso e attento fra i fattori della propria esperienza, personale e collettiva. 



Venendo agli ultimi giorni, quello che appare sempre più fuori dal discorso pubblico è il tema, declinabile anche laicamente, della vocazione, del compito. Ciascuno di noi, per godere davvero della vita, deve trovare il proprio posto, deve rispondere a quello che — alla luce della fede — è il compito, la vocazione appunto, che Dio gli ha consegnato come proposta e come ipotesi di felicità. 

L’errore del Regno Unito, in questo molto simile all’errore di ciascuno di noi, è quello di illudersi che questo compito, questa realizzazione di sé, possa avvenire al di fuori di una relazione, al di fuori di un legame. Certo, si obietterà, il legame con l’Unione Europea è un legame arido, difficile, pieno di lacci che sembrano limitare la libertà dei suoi aderenti. Il fatto è che lo stesso ragionamento si può applicare a qualunque relazione: noi spesso viviamo rapporti in cui il disagio lentamente cresce fino ad esplodere, ma il nostro modo di reagire non è quello di tirare fuori il disagio per affermare il bene del nostro legame, bensì quello di andarcene, di sbattere la porta credendo che senza quel legame — ma in definitiva senza alcun legame — tutto potrà andare meglio, essere migliore.

Non è tanto diverso quando si parla del dolore. La strage di Dacca ci ha messo di fronte ad un dolore dinnanzi al quale, esattamente come quello dei migranti, ci ritroviamo assuefatti e impreparati al punto che, nel giorno della tragedia, i media non sapevano come gestire la presenza della partita di calcio della Nazionale con un lutto così immenso. Gioia e dolore, passione e tristezza, sembrano fattori destinati a non parlarsi generando una personalità frammentata, chiamata da un lato a commuoversi per le prodezze dell’Europeo e, dall’altro, a riflettere sul pericolo imminente della minaccia jihadista. 

Un simile processo riaccade ogni giorno in quelle famiglie in cui una sofferenza ha bussato alla porta e ha preso le forme di una morte, di una sofferenza, di un’atroce malattia: si deve continuare a vivere, ma non si può dimenticare quello che sta succedendo. Noi sappiamo, guardando Cristo, che la vocazione ha sempre a che fare col dolore e con il sacrificio, che — anzi — lo stesso dolore e lo stesso sacrificio ci dona uno sguardo diverso, più vivo e curioso, dinnanzi ad ogni gioia, ad ogni riposo, ad ogni umano fattore del vivere. Anche una partita di pallone può essere vissuta con un dolore nel cuore. La vita non ci costringe a dividere ciò che è unito, a indossare maschere diverse per ogni circostanza, ma la vita — tutta la vita — ci conduce all’incontro con Gesù, presente nella Chiesa. 

Per questo la figura di Benedetto ci sembra in questo momento storico “gigantesca”: egli realizza se stesso nella sequela del Papa e nel sacrificio di sé, egli non pone in antitesi la propria vocazione con i legami e le circostanze della vita, ma li ritiene decisivi per la sua maturazione, per la sua crescita. 

Perché, caro direttore, mi accorgo sempre di più che la differenza fra gli uomini non si gioca sulla loro etica, ma sulla loro “fame”, su quella domanda di “cambiamento” che spesso nella politica dà fiato a posizioni sommarie e populiste, ma che — ad uno sguardo più attento — racconta la voglia del cuore, di ogni cuore, di essere sorpreso ed afferrato da un Bene. Sta alla nostra umile testimonianza rispondere che questo Bene c’è, che questo fatto è già avvenuto. E che la storia, di tutti e di ciascuno, può riposare tranquilla. Nelle mani di Colui al quale tutti gli uomini sono destinati, prima o poi, a dare del “Tu”.