Forse solo la poesia di Edgar Lee Masters o la prosa di Thortnon Wilder avrebbero la forza di rappresentare la vita drammatica di Beau Solomon, giovane universitario americano e la sua tragica morte a Roma.
Un destino che si è compiuto a poco meno di vent’anni, in modo così repentino e per ora ancora avvolto da numerose zone di buio. Un destino che aveva bussato alla porta di Solomon bambino, aggredito da un tumore combattuto da ben diciotto operazioni e dalla chemio. Il piccolo Solomon l’aveva debellato, guadagnandosi l’affetto di tutti coloro che aveva incontrato nella sua breve vita. Non solo: aveva studiato, era diventato un atleta di football; gli amici ne ricordano l’intelligenza pronta, grazie alla quale era venuto in Italia per i corsi estivi presso la John Cabot University a Trastevere. E qui, a Roma, nelle acque del Tevere, il suo destino si compie tragicamente.
La dinamica dei fatti ad oggi non è chiara. Ci sono degli elementi che non sono ancora stati composti: il furto delle carte di credito, una rissa, l’incontro con un romano senza fissa dimora, una ferita alla testa e poi l’acqua del fiume.
Tutto ciò, proprio per la sua indeterminatezza, spinge a pensare un po’ di più alla stranezza della vita. A che vale, senza ammettere l’esistenza di un senso, aver vinto un nemico così insidioso come il tumore, avere tanti amici e una prospettiva brillante davanti a sé, se poi la vita deve finire così, lontani da casa, di notte, nella solitudine minacciosa di un fiume ignoto?
Gli antichi romani avrebbero incolpato la sorte, con Catullo avrebbero maledetto le tenebre dell’Oltretomba che divorano ogni cosa bella, avrebbero pianto con Virgilio le lacrime delle cose, avrebbero reso onore con Seneca a una vita bene spesa.
Ma noi, tra Stati Uniti d’America e Italia, in una cultura che ha riconosciuto la bontà di Dio nei confronti di ogni sua creatura, possiamo dire, con dolore e con speranza, qualcosa di diverso? O dobbiamo ammettere di non saper andare oltre la tristezza dignitosa di quelle risposte?
C’è qualcosa in questa vita stroncata proprio sul limitare del sogno della giovinezza, dopo che aveva vinto la sua battaglia contro un male infido, che invita non solo alla commozione di cui sono testimoni i tanti amici di Solomon, ma anche all’accettazione che “i giorni dell’uomo sono come l’erba che fiorisce al mattino e alla sera è falciata e dissecca”. La fragilità della creatura è riscattata da una potenza più grande e buona: “Le vostre ossa rifioriranno come erba fresca”, promette il profeta Ezechiele a un popolo giunto al confine della morte.



In giorni provati dalla violenza che ha spento la vita bella e sofferta di Solomon, ma anche da quella scatenata nella lontana Dacca da studenti suoi coetanei, ma con ben altri intenti, davanti al dolore di famiglie che piangono i loro cari, in Italia e all’Est come all’Ovest, possa scendere per tutti, testimoni, vittime e colpevoli, una parola di pace: “Nelle tue mani consegno il mio spirito”.

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