In un clima da santa inquisizione, la sola evidenza è quella d’essere stati catapultati dritti e diretti dentro una pagliacciata colossale, una di quelle farse scritte apposta perchè gli illusi, com’è di chi scrive, imparino la traiettoria da imboccare qualora volessero che la giustizia si tramuti in vendetta, vestendo i panni della tortura: “Imparerai a tue spese — scriveva Luigi Pirandello — che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.
Durante il tempo del carnevale, poi, gli uomini vestono una maschera in più. Forse è per questo che sulla sentenza finale vogliono compaia il nome della città di Rio de Janeiro, patria del carnevale e delle maschere che addolciscono il mestiere di vivere. Sarà anche per questo che come aula del dibattimento hanno scelto un luogo diverso dall’hotel ufficiale dove tutti gli altri atleti, in particolare la famigerata compagine russa, hanno potuto discutere per tempo dei loro casi: nascosti agli occhi della gente, la menzogna è più facile da orchestrare.
Definire schifiltoso il conflitto d’interessi in gioco è usare, sapendo di farlo, un eufemismo da educande; pensare capace di obiettività chi organizza il carnevale-di-Rio è dare dell’imbecille alla stirpe umana: “Questo crucco addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner” (G. Fischetto, medico della Federazione Italiana e grande accusato di Schwazer nel processo di Bolzano ancora in corso). Il tutto cucito-su-misura nell’infinito spostamento di date: se vogliono a tutti i costi che sull’oro olimpico della Marcia 2016 sia scritto “Made in China”, allora questo temporeggiare è l’esatta riproduzione carioca della goccia cinese, orchestrata apposta per la pazzia. I conti tornano? Finsero felici e contenti. Tutti mascherati.
Quaggiù la giustizia è sempre un’interpretazione: salvezza e dannazione, a volte, abitano lo spazio infinitesimale di un cavillo invisibile pure a certi addetti ai lavori. Quando la giustizia, però, diventa tortura, ha perduto la sua ragione d’essere, diviene ingiustizia. Se ci sono le prove certe che Alex Schwazer si è ridopato, perchè temporeggiare? Se i nomi-cognomi depositati dal professor Sandro Donati alla Commissione Antimafia — e svelati al grande pubblico corredandoli di intercettazioni — sono frutto dell’immaginazione di un maestro solitario, perché gli accusati non hanno ancora detto parola o sporto querela per diffamazione?
Il tempo, nell’atleta, è condizione di tutto: record e pianificazione, obiettivo e preparazione, fatica e riposo. Concentrazione e svago. Giocare con il suo tempo è come giocare con i sentimenti di un innamorato: se non è vigliaccheria poco ci manca, è codardia, mancanza di nobiltà. Di dare un nome alle cose. Portare allo stremo il sistema nervoso di un uomo è volere a tutti i costi la sua testa, come Erode col Battista: forti con i deboli, deboli con i forti. Per poi, alla fine, poter dire “Vedete che hanno perso?” quando invece, a rigore di logica, è solo scaduta quella miseria di tempo messo a disposizione per dimostrare la fallacia della menzogna cucita addosso. L’uomo è un animale che finge: “Non è mai tanto se stesso come quando recita” (W. Hazlitt).
Eccolo il termine giusto per definire questa nuova versione del carnevale-brasiliano: una recita. “Ci scusiamo per il quarto d’ora di ritardo. Stiamo per cominciare”: forse non è stata ancora imparata a memoria la parte da qualcuno, altri avranno sbagliato maschera, qualcuno è alla ricerca di un cappuccio più grande per coprirsi. La faccia, alla faccia, solo in due hanno il coraggio di mostrarla, costi quel che costi: un atleta e il suo allenatore. D’altra parte chi recita ha bisogno di uno specchio, quindi prende tempo: deve verificare se la maschera è in ordine. A chi non recita basta un sogno: la quota sufficiente per rimettersi le scarpe, anche stamattina, e marciare. Convinti che le maschere, per quanto ben fatte, si riesce sempre a distinguerle dal volto.
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