La canotta di un atleta s’avvicina moltissimo alla scatola-nera di un aereo: in caso d’emergenza, la si cerca freneticamente per tentare la ricomposizione degli ultimi istanti. Nella canotta dell’atleta impegnato in una competizione, sta scritto quasi tutto. Di lui, della squadra d’appartenenza, del suo curriculum: su tutto, svetta il numero di pettorale e la nazione per cui gareggia. Ieri mattina, sul lungomare di Copacabana, Alex Schwazer ha firmato l’ultimo allenamento di una carriera mastodontica: 40 km “formidabili” — a detta del coach — corsi e trascorsi nell’anonimato più totale. Come figlio-di-nessuno. Convinto alla fine di spuntarla, come fu di Davide contro l’ingordo Golia, addosso nessuna canotta che ne identificasse l’identità.
Il basso-profilo dell’ultimo anno rispettato — lui sì — fino all’ultimo istante: senza colori, senza il nome di nessuna nazione, colto da solo a marciare sotto la pioggia, tra infradito e turisti distratti. Un’immagine struggente, avvilita, dolorosa. Poi le ultime parole, decise e decisive: “Dovreste avere più rispetto per me, come persona”, dette a caldo dopo la pubblica crocifissione. Stavolta hanno cominciato dal basso: chiodi nei piedi, perché è il miracolo della marcia ad infastidire. Otto anni di squalifica (Amen).
Il rispetto: “Niente è più deprecabile del rispetto basato sulla paura” (A. Camus). Lo sport insegna che in una sfida si può vincere, si può anche perdere: l’importante è farlo da signori. Anche la morte tiene un suo rituale: enfatizzarne la durata è la tortura. La morte sportiva di Alex Schwazer è un rituale studiato a tavolino: non si spiegherebbe altrimenti la foga messa in gioco, la fandonia spalmata sulle carte (e nelle provette), la segregazione assoluta nella quale è stato condannato a vivere.
Lui, il prof-cireneo Donati ancor di più: fossimo una nazione di uomini con la schiena diritta, un uomo così non potrebbe che essere a capo della Federazione, prossimo al ministero dello Sport. Siccome non lo siamo affatto, si lascia morire pure lui come un malfattore, condannandolo fuori dalle mura del villaggio, tutto solo a pedalare su quell’airone a due-ruote dal quale ha strappato Alex all’inferno, riuscendo a fargli rivedere le stelle.
“Certo, le molecole sono lì, ma non ci permettono di capire come sono arrivate” spiega il prof-maledetto. Ci sono le molecole, nessuno le ha mai nascoste (casomai qualcuno le ha infilate): dare il tempo necessario per tentare di spiegare — e capire, chiediamo troppo? — il possibile tragitto di quella presenza, dovrebbe rappresentare quel minimum che eviti alla giustizia di tramutarsi in vendetta. Nel processo-farsa, che non poteva chiedere ambientazione migliore della patria-del-carnevale, per tutto questo non c’è stato spazio, non si è voluto dare spazio: ciò che è stato scritto è stato scritto rinfacciò l’immortale Pilato alla folla che gli chiedeva di correggere la sentenza capitale. E’ da quei tempi che la folla, libera di scegliere tra Barabba e Cristo, sceglierà sempre il brigante. Parola di Dio.



“Una sentenza già scritta”: l’unico modo che la menzogna possiede per svaligiare l’innocenza. Ma se è legge di scienza che l’uso del doping aumenti le prestazioni, lo è altrettanto che i pipistrelli siano spaventati dalla luce del sole. Non saziava la morte sportiva: si necessitava del vituperio, della g(r)ogna che conduce alla pazzia, al suicidio. Hanno temporeggiato all’inverosimile, li hanno costretti ad andare fino a Rio per giustiziarli sotto i flash, li hanno cotti fin quasi all’ustione. Per poi scrollarseli di dosso: “Dovreste avere più rispetto per me, come persona”. Hai detto “persona”, Alex? “Che cos’è una persona?”.
Nella notte delle stelle cadenti, hanno irriso l’epica sportiva: “Un colpevole punito è un esempio per la canaglia; un innocente condannato è cosa che riguarda tutti gli onesti” (J. De La Bruyére). D’ora innanzi, nel destino di ciascun atleta, vi sarà questa bestia-in-agguato. Le sentenze vanno rispettate, la dignità nutre l’identica esigenza. Ci vediamo appena finito il carnevale: #iostoconalex.

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