La guerra in Siria è un conflitto che in cinque anni ha ucciso più di 250mila persone e ne ha messe in fuga milioni. Oggi questa guerra ha un simbolo in più. Una foto che riempie tutti i social: un bambino tirato fuori dalle macerie di casa sua. Ha 5 anni e una delle persone che lo ha salvato lo ha messo sulla sedia di quella che sembra essere un’ambulanza. È coperto totalmente di calcinacci e sangue. Un fango di sangue lo ricopre. È sotto shock. Catatonico. Ma poi si muove un po’. All’origine è un video: poi è un fotogramma a figura intera del bimbo. E quest’immagine rimbalza da un social ad un altro, da un giornale a un altro. Migliaia di “mi piace” che mai come in questa occasione sono inadeguati.
Se rimaniamo solo al “like”, Omran Daqneesh, questo il nome del bimbo, diventa importante quanto applaudire su Instagram all’aperitivo dell’amico con il tramonto all’orizzonte: pollice alzato per entrambi. Peccato che Omran non sia un simbolo. L’aperitivo col mare dietro è simbolo di vacanze, Omran no. Non trasformiamo la tragedia in una metafora. Perché da simbolo della guerra in Siria a tormentone dell’estate è un attimo, ma i “tormentoni” sono quelle canzoni che si infilano in testa a luglio ma a settembre, il 2 settembre, sono già dimenticate e belle che cancellate.
Omran non può essere solo un simbolo della guerra perché non è un simbolo. Stiamo attenti al pollice sul like. Teniamo viva quell’impotenza mista a vergogna che ci fa abbassare gli occhi se pensiamo che Omran ha la stessa età del nostro bambino che gironzola attorno a noi con il secchiello in mano e la sabbia sulla paletta mentre mettiamo il like al suo coetaneo. Omran è vivo, meno male, però è sepolto di calcinacci ed è solo. Nessuno a tenergli la manina come facciamo noi quando ai nostri bambini il medico fa la bua.
Lui si toglie il sangue dalla fronte da solo e si pulisce sulla stoffa della poltroncina. Poi ne arrivano altri due e poi io ho smesso di guardare. La cosa più terribile è che nessuno di loro piange.
Sono bambini siriani ma fossero anche i figli di chi ha buttato la bomba, fossero palestinesi o israeliani, curdi o sciiti, tutsi o hutu, che importa di quale guerra stiamo parlando?
Se non teniamo vivo questo dolore, se quel “mi piace” da aperitivo non diventa un “mi fa schifo e faccio qualcosa per cambiare”, se non diventa un “basta”, possiamo smettere di dirci ancora uomini. Primo Levi si fece questa domanda all’inizio del racconto della sua vita nei campi.
Quella domanda è ancora qui e ce la dobbiamo fare pensando a Omran. E lasciamo perdere i simboli. Quel ragazzino è coperto di fango fatto col suo sangue. Nessuna metafora. Sennò la guerra in Siria diventa un piagnisteo con la consistenza della melassa. “Like” vuol dire “mi piace” e questo applauso non può essere dato a Omran sopravvissuto come al tramonto o al tuffo della Cagnotto. Mettiamolo il “mi piace” ma mettiamo anche mano al portafoglio, o alla decisione di dedicare tempo a qualcosa di concreto per la pace una volta tornati a casa. Siamo molti guardinghi verso noi stessi. Corriamo il rischio di far evaporare il nostro sdegno in un like che ha molto di virale ma poco di virtuoso, molto di virtuale ma poco di reale. Commozione ma con reazione. No azione, no party.