Il saluto di Papa Francesco al Meeting di Rimini ne coglie espressamente, nel titolo dell’edizione di quest’anno “Tu sei un bene per me”, il coraggio. Il coraggio – controintuitivo, sotto la pressione dei nostri interessi che sentiamo minacciati – di vedere nell’altro che ci viene incontro con i suoi bisogni, avvertiti in competizione con i nostri, un bene; un bene comunque per noi, e non “qualcosa di superfluo, o peggio un fastidio, un ostacolo”. Una pulsione naturale nell’angoscia di perdere “il proprio spazio vitale” – dal posto di lavoro in crisi, alle “sicurezze” vere o presunte della propria quotidianità, all’agibilità senza conflitti dei propri “valori” -, e che pure non è la nostra “vera” natura: la nostra natura “umana”, che possiamo e dobbiamo portare a verità; fare verità di tutti e per tutti. Perché anche quando l’individualismo imperante nelle nostre società ci allontana dalla nostra natura relazionale e la sola cura di sé ci sembra il vestito più adatto per difendere noi stessi, il noi individuale, anche quando difendiamo la nostra individualità, noi difendiamo comunque un noi, che va al di là di noi stessi: la nostra famiglia, il proprio gruppo, l’ambiente, il nostro contesto sociale.



Nessuno si salva da solo, ricorda Francesco. Questa semplice verità dell’esperienza è vera tanto più oggi, nel mondo multiculturale della globalizzazione. Con i suoi incontri ora cercati (se vuoi incrementare lo scambio economico) ora obbligati (se ti vengono incontro sui barconi dei migranti). Dove il noi da difendere si è fatto più largo di noi, del noi che conosciamo. E dove anche in questo più largo “noi” del mondo globale – un destino dell’umano, cercato o obbligato che sia – nessuno si salva da solo; fosse pure il “da soli”, il “solo noi” di una nostra comunità chiusa, respingente, non accogliente.



Il magistero dell’accoglienza che la Chiesa di Francesco affida all’impegno di tutti, e alla riflessione del Meeting di quest’anno, non ha niente della predica buonista. È un messaggio tutto politico. Della sola possibilità “politica”, sensatamente governata, sugli scenari della globalizzazione di dare cittadinanza all’uomo; invito alla loro “comunione” necessaria come unica risposta possibile alle faglie di divisione che attraversano il nostro mondo, il vero baratro in cui possiamo precipitare.  

Francesco invoca, anche ricordando Giussani, il bisogno enorme che abbiamo di mettere negli occhi dell’uomo contemporaneo lo stesso sguardo, abbracciante ogni bisogno umano, di Cristo. Certo la richiesta è alta. Ma quando si è voluti essere “buoni” davvero, non si è mai potuto chiedere di meno. 



Si tratta ancora una volta di attingere al pozzo non esaurito della nostra natura umana, alle riserve d’immedesimazione nella vita degli altri che ci sono proprie come uomini; ogni giorno, ogni volta che lo siamo. Basterebbe forse, anche solo per un po’, quando bussano alla nostra porta, metterci nei panni del bisogno degli altri; fare per un po’ gli inviati speciali nella loro vita, per giudicarla meglio, almeno quanto vorremmo che, nel bisogno, fosse giudicata la nostra. E per sapere cosa significhi la speranza che ti venga aperta la porta, quando bussi.

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