“L’altro è sempre un mistero; è innanzitutto ciò che è, non ciò che vorrei che fosse”. Se lo dice padre Federico Trinchero, alessandrino, classe 1978, missionario carmelitano a Bangui, in Centrafrica, c’è da credergli. Ilsussidiario.net lo ha incontrato prima del suo incontro al Meeting di Rimini, previsto per oggi. Padre Trinchero racconterà la sua vita e il suo ministero nella “capitale spirituale del mondo”, chiamata così da papa Francesco nel novembre scorso, quando aprì solennemente la porta santa di una cattedrale, quella di Bangui, anticipando di qualche giorno per il Centrafrica il Giubileo della Misericordia.



Padre Trinchero, a Bangui papa Francesco, durante il suo viaggio di fine 2015, ha aperto l’anno santo. Che frutti ha prodotto quel gesto?
La visita di Papa Francesco è stato sicuramente un piccolo miracolo. Per due ragioni. La prima perché fino all’ultimo la visita era incerta per il problema della sicurezza (del pontefice e dei fedeli accorsi da tutto il paese). Fino alla sera prima dell’arrivo del Santo Padre a Bangui si sparava. Se avessero chiesto a me, ad esempio, avrei probabilmente sconsigliato al Papa di venire o gli avrei suggerito di attendere tempi migliori. E invece il Papa è venuto e dal punto di vista organizzativo e per la sicurezza tutto si è svolto nel migliore dei modi.



E la seconda ragione?
La seconda ragione è che dopo la venuta del Papa, salvo episodi circoscritti, a Bangui non si è più sparato. L’atmosfera è veramente cambiata. Il Centrafrica pare aver voltato pagina. Certo: non ci facciamo illusioni e c’è molto da fare. Ma il clima è diverso e Papa Francesco ha indubbiamente contribuito a questo cambiamento.

Come’è la situazione nel paese adesso, padre Trinchero?
Dopo la venuta del Papa, il paese è riuscito a eleggere in modo democratico un nuovo presidente nella persona di Touadera. Non sono state elezioni perfette, ma comunque il popolo ha potuto esprimersi nella scelta dei propri governanti. Non ha vinto chi era considerato il candidato favorito e chi ha perso ha riconosciuto la sconfitta. Questi sono forse piccoli segnali, ma importanti per un paese che sta uscendo da tre anni di guerra e che non ha mai conosciuto una vera democrazia. Attualmente la situazione è abbastanza tranquilla. Nel mese di giugno ci sono stati degli scontri, in alcune zone del paese, ma senza degenerare o dilagare come in altre occasioni. E non bisogna dimenticare che una buona parte del paese è, di fatto, ancora sotto il controllo dei Seleka, i ribelli che hanno preso il potere nel colpo di stato del 2013. C’è molto da fare. Ed più ciò che è da costruire per la prima volta, rispetto a ciò che è da ricostruire perché distrutto dalla guerra. Ma ci sono le condizioni per iniziare l’impresa.



L’occidente si sente assediato dai profughi. Voi ne avete avuto il carmelo pieno. Ci può raccontare?

Dal 5 dicembre 2013 abbiamo accolto dentro e attorno al nostro convento migliaia di profughi. Nelle fasi più acute della guerra hanno superato i 10mila. Attualmente sono ancora 3mila. Per noi è stata — e in parte lo è ancora — un’avventura umana e cristiana che ci ha segnati e ci ha fatto crescere come comunità. Siamo stati costretti a vivere il Vangelo e abbiamo imparato a fare cose che prima non sapevamo fare. Ma non c’è stato tra noi un eroe (e tanto meno quell’eroe sarei io). Ognuno ha fatto la sua parte e abbiamo lavorato molto come squadra. E non siamo gli unici ad averlo fatto. Parrocchie, seminari, conventi in tutto il paese hanno accolto per mesi e anni dei profughi, cristiani e musulmani, a volte mettendo a rischio la propria vita.

Che cosa si sente di dire a noi, alla ricca e spesso egoista Europa, e in particolare al suo Paese?
Non ho ricette da offrire all’Occidente o all’Italia circa il problema dei profughi. La gente che è arrivata qui da noi penso abbia storie diverse rispetto a chi arriva sui barconi. I profughi venuti da noi non hanno avuto il tempo di bussare, perché sono arrivati correndo e hanno trovato le porte già aperte. E non ci siamo mai posti il problema se fosse giusto o sbagliato accoglierli. All’Occidente, all’Italia e a chi mi è fratello nella fede mi verrebbe soltanto da dire che ciò che accade è più importante di ciò che vorremmo che accadesse, ciò che non programmiamo è più importante di ciò che vorremmo prevedere. A noi è successo qualcosa che non avevamo previsto, non siamo scappati e ci siamo rimboccati le maniche. Sicuramente, al nostro posto, anche voi avreste fatto la stessa cosa. E, se sarà anche vero che l’occidente e l’Italia sono ricchi ed egoisti, posso ugualmente testimoniare una generosità e un sostegno dall’Italia e dall’Occidente (sopratutto da persone prima sconosciute) che ci ha sostenuto e sinceramente commosso.  

Com’è in Centrafrica la convivenza tra cristiani e musulmani? Lei in una recente intervista ha detto che in passato convivevano pacificamente; poi che cos’è accaduto?
Prima della guerra il Centrafrica era considerato un esempio di convivenza tra cristiani (50% della popolazione, di cui 25% cattolici e 25% protestanti) e musulmani (15%; il restante 35% viene considerato animista). Purtroppo con la guerra — durante la quale i ribelli a maggioranza musulmana (Seleka) hanno saccheggiato o distrutto le missioni e le case dei villaggi o dei quartieri cristiani, e poi i ribelli a maggioranza cristiana (Antibalaka) hanno distrutto alcune moschee — si è infranto questo equilibrio. Molti musulmani sono stati costretti alla fuga e solo ora alcuni di loro stanno timidamente rientrando. Prima la vita del paese si basava su un equilibrio che vedeva da una parte i cristiani occuparsi soprattutto dell’agricoltura, del piccolo commercio e dell’amministrazione e dall’altra i musulmani occuparsi dell’allevamento e del commercio all’ingrosso. Ora questo equilibrio si è un po’ infranto. Forse c’era tra le due confessioni un sentimento di tensione e di frustrazione dei quali non eravamo coscienti. Con la guerra si è scatenata, da entrambi le parti, una violenza impensabile. Ora ci vorranno anni per ricostruire le relazioni ed arrivare ad una convivenza pacifica come prima.

Ma si è trattato di una guerra di matrice religiosa?

No. Il conflitto è nato per ragioni politiche, economiche e per una lotta per il potere, con indubbiamente interessi e influenze da parte di paesi esterni. Poi lo scontro è diventato purtroppo confessionale e la convivenza del paese è stata come avvelenata. Noi missionari abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto con i musulmani e molte missioni (anche noi al Carmel di Bangui) o parrocchie hanno salvato la vita a famiglie di musulmani. Questa è una cosa che fa onore alla giovane chiesa del Centrafrica.

Papa Francesco quando è venuto è stato colpito dalla capacità di quella gente di “fare festa con lo stomaco vuoto”. Dobbiamo ridiventare poveri per essere felici?
In questa anni ho visto gente che ha perso tutto e che ha visto la propria casa o famiglia distrutta. Ma non ho mai visto gente disperata. Gli africani hanno una capacità di resistenza alla sofferenza per noi impensabile. E anche nella sofferenza sanno sorridere e ricominciare. Basterebbe poi confrontare i dati dei suicidi in Giappone rispetto a quelli del Centrafrica per rendersi conto che la ricchezza non è automaticamente sinonimo di felicità. Non penso che bisogna ridiventare poveri per essere felici, perché la miseria è una brutta cosa che va combattuta. Forse bisognerebbe imparare dagli africani a condividere di più, ad avere pazienza, ad accontentarsi di poco, ad avere meno fretta. Dell’Occidente non mi preoccupa la ricchezza, ma la perdita della fede e la cultura contro la vita. Gli africani — che sicuramente sognano di essere ricchi come gli europei — non capiscono perché gli europei pur essendo ricchi non credono più in Dio e sono così poco aperti alla vita.

Per il papa, Cristo ci “primerea”, ci anticipa. Cosa significa concretamente questo nella sua vita, in missione dove si trova?
Cristo — almeno finora! — non mi ha mai deluso e, anzi, mi ha sempre sorpreso dandomi di più di quello che avrei osato sperare. Sono ormai sicuro che Cristo sa sempre e meglio di me cosa è meglio e bene per me. E meno ostacoli o capricci frappongo a questo suo anticiparmi… più sono felice e meno la vita diventa complicata. Lo vivo ogni giorno. Anche la stessa Provvidenza, nella vita missionaria, è qualcosa con cui si ha a che fare ogni giorno… e sorprende sempre, nei modi e nelle quantità, al di là di ogni nostra umana previsione o strategia.

E questa “sorpresa” della Provvidenza, cosa significa in particolare per un carmelitano, per chi vive il carisma di S. Teresa del Bambin Gesù?
Il Carmelo in Centrafrica è una pianticella giovane, ma promettente. Molti, forse troppi!, giovani bussano al nostro convento. Sono in questo paese da sette anni e mi sono sempre e soltanto occupato della formazione dei giovani candidati alla vita religiosa. Per me è un onore e una grande responsabilità compiere questa missione così delicata e così importante per il futuro della Chiesa centrafricana. Questa missione è sempre stimolante, perché vivere con i giovani — e con dei giovani così diversi per cultura — non lascia mai tranquilli e ogni giorno s’impara qualcosa.

Padre, un’ultima domanda. Cosa le dice il titolo di questo Meeting, “Tu sei un bene per me”?
Mi piace e mi provoca nella sua disarmante e stimolante semplicità. L’altro è per me sempre un mistero, qualcosa di sacro, mai totalmente afferrabile, sempre di più di ciò che penso di avere colto. L’altro è innanzitutto ciò che è, non ciò che vorrei che fosse.

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