“Pronto, sono don Matteo”. La voce che risponde al telefono è quella dell’arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Maria Zuppi. Un modo insolitamente umile di presentarsi per il capo di una delle arcidiocesi più importanti e complesse d’Italia, sulla cui cattedra hanno seduto teologi di prim’ordine come Enrico Manfredini, Giacomo Biffi e da ultimo Carlo Caffarra. Ordinato arcivescovo metropolita di Bologna il 27 ottobre scorso, monsignor Zuppi rappresenta alla perfezione la nuova direzione impressa alla Chiesa italiana da Papa Francesco. Per 30 anni Zuppi è stato viceparroco e poi parroco nella basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, e solo nel 2012 Papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo ausiliare di Roma. Oggi l’arcivescovo interverrà al Meeting di Rimini.



Monsignor Zuppi, la sua nomina come arcivescovo di Bologna ha sorpreso molti. Quali sono i motivi ispiratori del suo magistero?

Quelli che ci indica Papa Francesco, che sono stati offerti dalla Chiesa italiana prima con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e poi con il convegno di Firenze. Mi riferisco alla prossimità e alla vicinanza alle persone, e alla scelta di avvicinare tanti attraverso la via della Misericordia.



Lei è considerato come il vescovo dei poveri. Perché questo ad alcuni è sembrato dare fastidio?

Da sempre tutti i vescovi debbono essere i vescovi dei poveri. Che questo però dia fastidio non mi sembra, o quantomeno spero di non avere dato fastidio. Anzi al contrario ho trovato e sperimentato fin dall’inizio un’accoglienza commovente da parte dell’Arcidiocesi di Bologna, con moltissime manifestazioni di affetto. Se a dare fastidio è il fatto che i poveri debbano essere al centro, si tratta di un insegnamento del Vangelo e non della maggiore o minore sensibilità di qualcuno. Questo ci aiuta anche a scoprire la via spirituale, perché chi è vicino ai poveri deve sempre trovare anche una via contemplativa e mistica.



Il titolo dell’incontro cui lei parteciperà oggi a Rimini è una frase del Papa: “Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”. Come intende declinarlo nella sua diocesi?

Anzitutto occorre scoprire quali sono oggi le periferie della nostra città, le domande antiche e nuove di una realtà che è cambiata e sta cambiando. Ci sono situazioni note come l’invecchiamento e l’oggettiva solitudine degli anziani, cui si aggiungono tante forme di povertà e di isolamento. Per ricomprendere le domande della città occorre andarvi incontro, guardandole e toccandole con quella via della Misericordia che Papa Francesco ci ha indicato come metodo anche in occasione della 50esima ricorrenza del Concilio Vaticano II.

Quale occasione storica per la Chiesa italiana rappresenta il Giubileo della Misericordia?

Il Giubileo della Misericordia ha riaperto tante domande e consentito alla Chiesa di ritrovare il suo volto di Madre, aiutando in tanti a riscoprirla come Madre. E soprattutto questo è un processo che inizia, una sensibilità che ritrova centralità. La Misericordia non è un valore tra gli altri ma una vera e propria priorità.

 

Che cosa dobbiamo fare per accogliere l’appello alla conversione che viene dal Giubileo della Misericordia?

Dobbiamo iniziare a piangere, come ci ha invitato a fare tante volte Papa Francesco. Ricordo un incontro con i sacerdoti di Roma nel corso del quale il Santo Padre ci disse: “Impariamo a piangere”. La vera questione non è una disciplina interna o un metodo da acquisire, bensì la commozione di Gesù di fronte alle folle. Quando avvertiamo questo sentimento di fronte alle tante domande, alle difficoltà, alla confusione in cui vivono i nostri fratelli, troviamo la motivazione che ci serve per scegliere la via della Misericordia. Non è qualcosa che sperimentiamo in laboratorio, bensì, come ci ha invitato a fare Papa Francesco nell’Enciclica Lumen Fidei, si tratta di “guardare con gli occhi della Misericordia”.

 

Il titolo del Meeting è “Tu sei un bene per me”. Per lei che cosa significa?

Nel mio intervento comincerò proprio a parlare del titolo, che è molto bello e significa tante cose. Innanzitutto implica che io non trovo me stesso senza un tu, e che il tu non è qualcosa da cui difendersi o da selezionare, ma è un bene. Il titolo del Meeting è dunque un invito positivo a cercare il bene che il tu rappresenta e che c’è sempre, anche se qualche volta è molto nascosto.

 

(Pietro Vernizzi)

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