Uno stupendo portale gotico. Austero, solenne. Il bianco del travertino e la terracotta per le statue della Vergine in trono col Bambino. Così si rivelava la chiesa di Amatrice, nel suo cuore antico, basilica dedicata a san Francesco d’Assisi. La Chiesa, il Comune, la piazza. Così si è fatta l’Europa. Oggi anche il cielo sembra sporco e dolente a chinarsi sulle sue rovine, s’impasta con le pietre che sembrano più grigie, e s’accumulano davanti all’ingresso, rotolano dal tetto sfondato, svelano impudicamente i resti dell’interno che custodiva opere preziose. Il campanile pericolante pare resistere, fino alla prossima scossa, sempre che non sia necessario abbatterlo, perché non crolli sull’umanità martoriata, sullo scempio di vite su cui aveva vigilato per 700 anni, che doveva proteggere.
Aveva resistito ad altri terremoti, la chiesa. Aveva resistito ai saccheggi e a Murat, ai giacobini assatanati devastatori del sacro. Ha ceduto, sulla diabolica faglia che ha attraversato come una ferita la terra d’Italia, per strapparla dalla sua compattezza, per separare, dividere, far morire. Diabàllon. La saetta segreta, dal profondo, si è fatta strada nella notte, ha squarciato la crosta, ha divelto, inghiottito. Pietre, storia, memorie. Carrozze di signori hanno attraversato quel portone cesellato con cura e dedizione da mani esperte, bottegai d’alta scuola, principesse velate hanno guardato di sottecchi per la prima volta lo sposo, tremando sulla soglia, e così umili montanare use a lavar panni e preparare sughi sono arrivate con impeto, con al collo un piccino da battezzare, una rosa per i giorni di festa.
La chiesa, la casa, l’anima di un paese che simbolicamente s’accascia, e mostra al mondo le sue macerie. E’ l’Europa, adesso. Aveva retto quassù, tra il verde dimenticato dai più frenetici giri turistici. Aveva preservato una vita civile, umana, cordiale, aperta al gusto delle cose, dei profumi, dei sapori, dei canti. Domenica per la sagra sarebbe stata piena, la basilica, avresti potuto spiare nei lineamenti dei bambini il profilo dei nonni, col vestito buono per primi a prendersi un posto a sedere. Ci sarebbe stato il coro delle occasioni e quel chiacchiericcio sul sagrato, all’uscita, per continuare la festa e portarla poi nelle case.
Non si entra più, in quella chiesa: la ricostruiranno, prima o poi, ci sarà pietra nuova liscia e luminosa a rattoppare le cicatrici passate. Ma non sarà più la stessa. Le calamità, gli oltraggi si superano, attaccati alle radici, a un’identità che sostiene, consola, dà forza. Se gli uomini e le donne che avevano scelto la montagna, la semplicità, quella piazza, se ne andranno lontano, non ci sarà ricostruzione possibile.



La cattedrale è un simbolo, come accade in ogni luogo: non solo il patrimonio artistico, che vedere in rovina fa male, ma è poca cosa davanti alle lacrime di ogni madre chinata sui propri figli, mariti, padri. Non c’è tesoro che uguagli il tesoro di una vita. Ma la cattedrale è il centro, il primo luogo cui approdi, quando entri in un paese nobile, antico, il segno. Le mura che si sbriciolano sono presagio di un cedimento non solo strutturale. Potrà la natura o i suoi figli malati d’odio distruggere o perfino insanguinare il tempio. Ma bisogna prima costruire il tempio, scriveva Eliot. Possiamo ricostruire con mattoni nuovi quelli che i nostri padri ci hanno tramandato. Bisogna volerlo. Del resto, questa chiesa che ci rattrappisce l’animo, che rappresenta oggi il crollo del futuro, la fine di tante storie, il dolore della sua gente, quella chiesa ricorda la cappella diroccata di san Damiano. Non c’erano vergini in trono sulla facciata, perché Maria di Nazareth non era abituata ai troni. Ma fu chiesto al più piccolo e malandato degli uomini, un giorno, di darsi da fare per aggiustarla. Si chiamava Francesco, la cattedrale di Amatrice porta il suo nome. Basterà un vescovo, un prete a celebrar messa sul piazzale, quando sarà sgombrato da mani operose. Basterà un tavolo come altare, perché la forza di quelle pietre sgretolate ci ridoni orgoglio, e speranza.

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