Il cielo è azzurro come dentro un quadro, il pomeriggio è ormai inoltrato quando arrivo sul lungomare per raggiungere l’albergo. C’è molta gente nella spiaggia, tante auto nei buchi ricavati ovunque che hanno su l’insegna blu con la P di parcheggio, perché qui, nella Romagna dove il Meeting si tiene ogni estate, sono ottimisti sempre. Il risciò — si chiama così, no? — davanti alla mia macchina è lentissimo, sudano in quattro sotto il tettuccio, ma è solo uno che pedala, è solo il papà che spinge davvero, la mamma guarda i due bambini, loro si guardano in giro.
Io non ho tempo di guardare, raggiungo l’albergo, giusto il tempo di mettere le valigie in camera, di una doccia e poi subito al Meeting. Ma sono così tanti quelli che ne parlano, così sovraccarico il cuore di noi che siamo attraversati da queste parole e dalle persone che le portano a spasso nei corridoi o dalle scrivanie o dagli schermi. Addirittura la sera, quando torniamo verso l’albergo in questa striscia di terra uguale per chilometri e chilometri, siamo quasi zitti in macchina, quasi che le parole di questi giorni possano rischiare di essere abusate, sovraesposte. E ancora trovo il risciò davanti, il fiume di gente che cammina tra i negozi e le gelaterie, la mamma che sgrida il bambino che si è sporcato di gelato, una musica che viene fuori dagli alberghi con il ballo liscio incorporato.
E la mattina — perché per fortuna il Meeting apre alle undici e persino mio figlio accetta l’idea che la mattina si può stare al mare — troviamo un ombrellone in seconda fila, mangeremo in spiaggia, prenderemo un po’ di sole, poi di nuovo tra i saloni e le mostre, tra gli amici e un’altra folla. Perché qui, sulla spiaggia, c’è ancora una folla di turisti, mattinieri almeno quanto noi: colazione dalle otto alle dieci — negli alberghi i ritmi sono sempre quelli che mi ricordavo dalla pensione dove andavo con i miei genitori cinquant’anni fa — pranzo dalle dodici e mezza e poi cena alle sette e mezza. E ci sono ancora le passeggiate con le gambe dentro la bassa marea, i bambini che fanno i castelli con la sabbia, qualcuno con le racchettone di legno, la mamma che dice al figlio che è presto, che ci vogliono tre ore prima di fare il bagno. Le stesse parole di allora, magari adesso con qualche tatuaggio in più. Gli stessi pedalò, gli stessi ambulanti in riva al mare, gli stessi tavoli in cemento per il ping pong, la barca che arriva per il giro turistico, i bambini che si perdono e l’altoparlante che li descrive nei loro costumi rossi o gialli. Tutto uguale, mi viene da pensare, il tempo qui si è fermato davvero.
Noi rimaniamo fino alle tre, la spiaggia diventa il deserto dei Tartari nella pausa del pranzo, i più temerari tornano solo alle due e poi di nuovo la spiaggia si riempie, in ordine, uguale. La mattina dopo il terremoto — che anche qui si è sentito e qualcuno racconta del lampadario, delle grucce nell’armadio che annunciavano il disastro, e qualcuno dice che ha telefonato a casa e tutto per fortuna è a posto — questo posto ha ancora più il significato di una risposta, di un tentativo semplice e commovente di dare un senso, di trovare una misura delle cose: le file degli ombrelloni, l’ordine delle ore con la sua scansione quasi rituale della vita, gli stessi scogli finti piazzati a pochi metri dalla costa perché il mare non divori la spiaggia, cos’altro sono se non un modo di difendersi, di farsi coraggio, quasi, davanti a ciò che invece potrebbe difficilmente essere arginato? E’ davvero così sbagliato?
Lasciamo la spiaggia per raggiungere l’ultimo incontro del Meeting, i parcheggi sono quasi vuoti, si arriva fin quasi davanti all’ingresso e ci troviamo ad entrare insieme a un gruppo di suorine di Madre Teresa, insieme a Suor Serena che tra poco ci racconterà dal palco la sua vita con Madre Teresa. La Guarnieri prima dell’incontro ringrazia tutti e annuncia il titolo dell’anno prossimo, da Goethe, dal Faust. Si torna alle frasi lunghe, alle cose complicate, viene da dire: quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo. Non so se è proprio così, ma il senso è questo.
Tornando a casa, nella solita coda tra Forlì e Imola prima, nella solita coda a Bologna San Lazzaro dopo, dentro il buio che comincia a scendere su tutti noi viaggiatori dal Meeting e dalle spiagge della Romagna sempre uguale, mi sembra che il Meeting anche solo con il suo nuovo titolo, in relazione soprattutto a quello di quest’anno, racconti già qualcosa, ci dica ancora una volta la complessità delle cose, la lotta che è questa vita: dalla sottolineatura al tu, alla diversità, al dialogo di quest’anno, all’indicazione di un modo per non lasciarsi scappare via la tradizione, per vivificarla, per guadagnarsela davvero, farla diventare nostra. Nel buio dell’autostrada le luci delle macchine e dei camion sono una scia rossa quasi ininterrotta, dall’altra parte invece ci guardano gli occhi gialli delle macchine che scendono ancora verso il mare. La vita non è mica tanto diversa, non è mica tutta una cosa sola. Non so cosa potrebbero dire i professori: che la sua legge è complessa, che ci sono le contraddizioni, la dialettica. Io vedo le luci da questa parte e dall’altra, mi viene in mente il mare piccolo e protetto di questi giorni, con il piccolo rumore di quando viene e di quando va, mi viene in mente il bambino che va dentro l’acqua e la mamma sulla spiaggia che lo richiama perché non è l’ora — così come le ha insegnato sua madre e adesso lei insegna a lui, e mi pare che in fondo il titolo del Meeting del 2017 possa anche essere tutto dentro questa immagine.
Mi vengono in mente questo titolo e quello di quest’anno come due facce della stessa medaglia. Ecco, il Meeting continua a raccontarcelo questo rumore che viene e che va, continua a essere una parola capace di stare dentro la complessità del mondo e di essere ragionevolmente consolante insieme. E andrà bene finchè sarà così. E sono contento che mio figlio, sul sedile accanto al mio, possa stare dentro questa scia di luce dentro il buio, verso casa.