Le antiche pievi sono ridotte a mucchi di polvere sotto un cielo di cobalto. Le loro campane sono state rese mute e i vagiti dei neonati — la vita non arresta le sue nascite — si mescolano con il canto funebre dei morti. Pare che anche il Cielo, sopra le colline d’Ascoli, stia zitto: l’Iddio della tradizione cristiana non ha mai avuto bisogno di giustificarsi. Al funerale, però, una parola si deve pur dire: mai come in queste occasioni ci si sente costretti nella scelta tra una parola folle e una vana.
“La porta della chiesa era spalancata e si vedeva la piazza con le case annegate e il cielo grigio e minaccioso”, scrive nel suo Mondo Piccolo Giovannino Guareschi narrando la tremenda alluvione del 1951. Quella volta un prete di campagna rimase ad incoraggiare la sua gente. La chiesa era devastata, deserta: la gente, immobile sulla sponda opposta del Po, guardava il campanile: “Fratelli (furono le parole del prete, sotto le mentite spoglie del celeberrimo don Camillo) le acque escono tumultuose dal letto del fiume e tutto travolgono: ma un giorno esse torneranno placate nel loro alveo e ritornerà a splendere il sole. Se, alla fine, voi avrete perso ogni cosa, sarete ancora ricchi se non avrete persa la fede in Dio. Ma chi avrà dubitato della bontà e della giustizia di Dio sarà povero e miserabile anche se avrà salvato ogni sua cosa“.
Di quali altre parole potrebbe farsi voce un servitore di Dio, chiamato e condannato a celebrare la vita sopra la cenere delle rovine? “Ma sono sempre le solite cose” potrà dire qualcuno, pur notando che quel piccolo-uomo di Dio, il vescovo Giovanni d’Ercole, porta addosso da due giorni una camicia madida di polvere, muovendo nell’aria mani che han toccato sangue defunto. Di quali altre cose potrà mai farsi profeta per non apparire bestemmiatore di cose vane? Usa, dunque, le solite-cose: la rabbia consolata di Giobbe, la persuasione sofferta di Paolo — “Se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti” (1Cor 15,21) —, il lamento mutato in danza della vedova di Nain. Le solite-pagine, come soliti sono anche gli atti dell’amor folle di questi giorni: un materasso, una tazza di latte bollente, una mano poggiata sulla spalla. Un piatto di minestra, una porta aperta, una sedia aggiunta.
Ci sono sere, e chi ha perduto tutto le riconosce come le sere più guerriere e materne, nelle quali le solite-cose acquistano un sapore tutto diverso: il gusto di ciò che è primigenio, la freschezza dell’acqua sorgiva, la seduzione di ciò che è bellezza innata. Al pari delle solite-cose che un vescovo trova la forza di estrarre dalle macerie: un’orazione sulle labbra — “Al tuo Dio, vescovo, non importa che noi moriamo?” —, la brace di una fede che ancora arde nel petto, una corona stretta in mano.



Gli strumenti primordiali per non morire di avvilimento, proprio come ai tempi del saggio don Camillo: “La gente continuò ancora a guardarlo e, quando dal campanile vennero i rintocchi dell’Elevazione, le donne si inginocchiarono sulla terra bagnata, gli uomini abbassarono il capo. La campana suonò ancora per la Benedizione. Adesso che in chiesa tutto era finito, la gente si muoveva e chiacchierava a bassa voce: ma era una scusa per sentire ancora le campane“. Scuse fanciullesche di chi s’aggrappa ad un suono amico per consolare il lutto.
Un vescovo con le mani sporche sa bene che, crollato il mondo, a restare in piedi saran solo le solite-cose. E’ poca-roba, han ragione i detrattori: manca la luce delle candele, l’acqua nel water, le mutande per i nascituri e i morenti. Il vescovo Giovanni tutte queste cose non le tace. Come non tace il fatto che, gettate via le solite-cose, si sprecherebbe anche l’ultima pietra che, raccolta da terra, ancora accetta l’azzardo di mutarsi in pietra d’angolo per una nuova restaurazione. Le solite-cose son sempre le più folli. Anche le meno vane.

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