Caro direttore,
Umberto Eco, poco prima di morire, ebbe a dire che chi un tempo parlava “solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività” oggi ha “lo stesso spazio di parola di un Premio Nobel”. In effetti la questione esiste e il “dibattito social” scatenatosi in questi giorni attorno al terremoto che ha colpito la dorsale reatina degli Appennini dimostra ancora una volta la superficialità e la pericolosità di un certo modo di usare i nuovi strumenti di comunicazione. Enrico Mentana, sulla sua pagina Facebook, ha scritto: “Nelle prime ore di una tragedia che ha cancellato centinaia di vite umane c’è gente che invece di prendere a cuore la sorte di un pezzo del paese pensa bene di avvelenare i pozzi, confezionando bufale che creano sconcerto, diffidenza, avversione, sfiducia e odio sociale, nel momento che dovrebbe essere della solidarietà”.
Se tutto questo è vero, è altrettanto innegabile che tali atteggiamenti mettono in luce, più delle analisi, i sentimenti di una parte non trascurabile di opinione pubblica che tutti dovremmo tenere più in considerazione per imparare a leggere meglio la complessità del nostro tempo. A tal proposito fa riflettere la furia con cui tanti si sono scagliati sia contro gli appelli del Papa e di molti “alla preghiera” in quest’ora di dolore, sia contro chi faceva notare l’episodio della Madonnina ritrovata in piedi a Pescara del Tronto dopo il terremoto di mercoledì. Ciò che emerge in maniera incontrovertibile è una profonda rabbia verso Dio e verso la Chiesa, il livore tipico di chi si sente tradito rispetto ad una promessa che gli è stata fatta. È come se questi internauti rancorosi, dietro le loro invettive, ci dicessero: “No, il mio cuore non merita tuto questo male”.
Allora è chiaro che, più che spendersi in dotte contrapposizioni apologetiche sul dolore e sull’esistenza del male nel mondo, è necessario un altro approccio, un altro atteggiamento. La cosa impressionante non sono le accuse di queste persone, a volte mascherate da nomi fittizi, ma la nostra incapacità, in quanto cristiani, di ascoltare il grido che esse sottendono e a cui la nostra fede ha una risposta: infatti noi non sappiamo soltanto che “il cuore dell’uomo non merita questo”, ma sappiamo pure che “il cuore dell’uomo merita Cristo”.
Ciò che la vita attende e brama non è neanche la fine del dolore, ma un Amore gratuito nel quale poter vivere e guardare tutto. Noi aspettiamo la carezza del Nazareno, la Misericordia del Padre, ed è da questa consapevolezza che può ripartire, in modo creativo, il dialogo con ogni uomo. Non c’è nessuno che abbia paura che la vita sia inspiegabile, tutti al contrario abbiamo paura che la vita non sia amata.
Su questo punto è davvero necessario un esame di coscienza: se Dio è continuamente identificato con immagini e proprietà che nulla hanno a che vedere con quello che noi abbiamo incontrato, con ciò che Egli veramente è, qualche pretesto per queste interpretazioni, nella nostra testimonianza e nel nostro annuncio, dobbiamo averlo dato. Il Papa, nel suo composto silenzio e nelle sue misurate parole di questi giorni, ci indica una strada, uno stile: la capacità di accompagnare l’uomo, di esserci, di prenderci cura di lui senza chiedergli nulla in cambio, consapevoli che questo non capovolgerà in due minuti la prospettiva e il giudizio di molti, ma che una simile vicinanza metterà in moto relazioni e processi che, nel tempo, sono destinati a incidere nel tempo e nello spazio del mondo. Alla furia della grandine, anche di quella social, il saggio contadino si addolora, ma soprattutto ricomincia, con coraggio e con fiducia, a coltivare.
Questo, in fondo, dovrebbe dirci molto sul “metodo di Dio”, sullo sguardo da mendicare in questi giorni e in ogni giorno, ossia sulla modalità con la quale anche oggi essere presenti, come sentinelle operose, sulla breccia di una città che altro non è che il nostro cuore. Un cuore drammaticamente assediato dal più spietato dei suoi nemici: il terrore di essere rimasto orfano, senza senso, senza destino, senza una Terra Promessa.