“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei la vita rifiuta” (Dante, Purgatorio, I, 71-72). Quanta modernità in questi versi di Dante, sì modernità, anzi iper-modernità, a rafforzare la sensazione, quel retrogusto un po’ amarognolo che proviamo, almeno noi che ancora pensiamo che libertà è “sì cara”, ogniqualvolta leggiamo di provvedimenti modello Grande Fratello. L’ultimo, di questi giorni: scatola nera obbligatoria su tutti i veicoli, pubblici e privati. Siamo nel territorio più mercatista e vigilato dell’ex Bel Paese, manco a dirlo: RCA. Ma che te lo dico a fare, si direbbe a Roma? 



Non si legifera su questa materia senza consultare il mercato, cioè i consumatori, soprattutto quel bel pezzo di prateria che va da Napoli a Reggio Calabria, un decimo della popolazione italiana, più o meno, gente che paga un occhio della testa la RCA e vuole a ogni costo ridurre i costi della medesima. Come? Assoggettandosi a tutto ciò che può facilitare ciò, senza mettere nel conto il costo della riduzione della libertà. Pardon, della privacy. Vale a dire la garanzia di segretezza, del foro interno e della sfera privata. Un diritto una volta inalienabile e oggi considerato funzionale sempre a qualcos’altro: il mercato, le esigenze dei mercati, ossia sempre il mercato, la sicurezza, quello che volete. Ma nessuno, ecco il punto, fa più battaglia su questo nodo cruciale afferente alla libertà della persona. Nessuno o quasi. C’è sempre qualcos’altro da considerare. Un altro fattore proveniente dall’esterno induce qualcuno a considerare il fondamento come l’esito di un compromesso, ovviamente al ribasso.



Il mondo rovesciato, il grande sogno di Marx e di tutti i funzionalisti da due secoli e mezzo a questa parte: la struttura e la funzione (sociale, economica, politica, perfino giuridica) vince sulla nuda libertà. Su quella libertà “sì cara” a chiunque la pensi come Agostino, Tommaso d’Aquino, Newman, Chesterton, Belloc, Giussani, e un esercito di grandi nomi che hanno reso quel “sì cara” esperienza da saggiare, di momento in momento, senza cedere a un altro fattore che cambia le regole in corso d’opera.

Da tempo sono convinto che quella di Churchill sulla democrazia sia ormai una mezza verità: la peggiore forma di governo, salvo tutte le altre, che sarebbero dunque peggiori della peggiore. A parte il fatto che come definizione in negativo non è che entusiasmi più di tanto, ma poi non regge alla prova dei fatti. In realtà, una democrazia come macrosistema di scambi e funzioni procedurali volte a ottimizzare l’efficienza (posto che vi riesca) e detrimento dell’essenza della libertà personale, francamente fa schifo. 



Questo è un Paese in cui non si riesce più a votare per avere un governo che abbia una maggioranza legittimamente uscita fuori dalle urne, in cui larga parte dei magistrati decide come debba costituirsi un assetto industriale allocato su un territorio della Repubblica, in cui tutto si baratta per “risparmiare” e infine dedicarsi al tipo umano più baraccato e diffuso che vi sia, l’homo consumans, insomma, evviva il Medioevo con l’onore, il Re, i baroni feudali, l’ancien regime e l’asse trono-altare modello Vandea prima che i giacobini fracassassero tutto per disporre poi della libertà come sta facendo questo Parlamento alla mercè di un mercato corporativo e parassitario, che succhia soldi dalle tasse e le risputa come “bonus” per l’homo consumans.

No, Churchill doveva essere il pessimista cinico che in realtà era, fino in fondo, eroe del fondo della sua bottiglia e dei suoi generali e fermarsi alla prima parte della sua abusata citazione (chiedo venia per averla richiamata, è davvero troppo, lo so): la democrazia (questa democrazia) è la peggiore forma di governo. Period. Tradotto: punto.