Nelle tormentate vicende di Tiziana Cantone — la trentunenne suicidatasi dopo che lei stessa aveva diffuso alcuni video hard che la vedevano protagonista, ottenendo l’effetto di farli diventare virali e di farsi dileggiare sulla rete — e della minorenne, che nei bagni di una discoteca di Rimini è stata filmata dalle amiche divertite mentre un uomo la stuprava, c’è qualcosa di più profondo che non è emerso dalle cronache di questi giorni. 



Entrambe le protagoniste degli episodi, infatti, hanno sperimentato la riduzione di se stesse ad oggetto, a cosa. Poco importa se questo processo è inconsapevolmente o consapevolmente partito da loro: le due giovani sono state cosificate e usate per riempire il vuoto di qualcun altro e soddisfarne una qualche perversione. Non facciamoci distrarre dai contorni dei fatti enfatizzati sui media: la causa intentata e vinta da Tiziana, con la beffa del pagamento delle spese legali stabilito dallo stesso giudice che le aveva dato giustizia, oppure l’apparente ingenuità delle amiche, che filmavano la minorenne “senza rendersi realmente conto — come sottolineato da alcune testate giornalistiche — di quanto stava succedendo”, o infine la nazionalità dello stupratore in discoteca sono solo degli specchietti per le allodole. 

Tutti questi elementi, infatti, distraggono dalla reale dinamica delle vicende: il lasciarsi ridurre a mero pezzo di materia, disponibile per tutti. Sarebbe bugiardo non evidenziare che, drammaticamente, tutto questo è avvenuto — almeno all’inizio — con una qualche forma di implicito assenso da parte loro. Questo particolare è rilevante perché restituisce alle due storie il loro punto ultimo di comprensione, ossia un’umanità che si serve delle altre umanità e che, in alcuni tratti, vuole essa stessa essere usata per sentirsi viva, per sentirsi “utile”. Incombe su questi fatti l’ombra del mito di Narciso che, insoddisfatto della vita e con un vuoto nel cuore, crede di trovare in se stesso, nell’uso di sé, la soluzione al proprio “male di vivere”. 

In effetti gli uomini usano e si usano sperando di poter trovare qualcuno che li guardi o qualcuno da guardare. È dunque questa, infine, la radice del successo dei social media: l’assenza di un Tu reale nella vita dell’uomo e il bisogno di un qualche “tu” — anche virtuale — che lo sostituisca e ne faccia le veci. È comodo parlare di “diritto all’oblio”, di “educazione digitale” o di “malcostume dei media”, è — al contrario — molto più difficile guardare apertamente ciò che sta dietro a queste storie e che quotidianamente vediamo accadere dentro la vita di grandi e piccoli attorno a noi, dentro la stessa vita di chi adesso scrive e di chi adesso legge. 

La fame di essere visti o di vedere gli altri, tuttavia, non è di per sé una perversione, ma è il segno del bisogno infinito di un’umanità che non basta a se stessa. C’è in ogni persona l’esigenza di un Altro da contemplare e da cui essere contemplati e questa esigenza, censurando completamente Dio come possibilità di risposta, cerca nell’altro, o addirittura in sé, un surrogato plausibile in grado di esprimere tutto l’amore e il dolore che ciascuno si porta dentro. 

Non si esce da questo tranello con un’educazione al “corretto” utilizzo dei social, ma solo con un aiuto concreto a crescere in umanità, con un’appartenenza esistenzialmente vissuta ad un Amore presente, un Amore che vada al di là di ogni male e di ogni dolore per restituirci il nostro vero volto e la consapevolezza, quindi, di essere amabili. 

Una volta Montale ebbe a dire: “Tentai di essere un uomo e fu già troppo”. Oggi, a distanza di trent’anni da quella frase, forse si deve ammettere che per Tiziana, e per la ragazza minorenne vittima dello stupro, tentare di essere umane non era un mero esercizio intellettuale o morale, ma la condizione essenziale per poter vincere il nulla che le ha divorate. E che, senza dubbio, ha riempito anche il cuore dei loro colpevoli aguzzini.