E’ impressionante come in un’immagine il Papa colga ad Assisi, nella giornata mondiale di preghiera per la pace, lo spirito dei tempi: insieme il problema del nostro tempo, la guerra (quella mondiale a pezzi e bocconi che ha richiamato all’attenzione di tutti), l’animo che ci vorrebbe (la sete di pace) per affrontarla, prima ancora di quella o quest’azione concreta, pure tutte elencate, e la sua pressoché generale rimozione. 



“Troppe volte” le vittime della guerra, che scappano dalle loro terre, ha detto il Papa, “incontrano il silenzio assordante dell’indifferenza, l’egoismo di chi è infastidito, la freddezza di chi spegne il loro grido di aiuto con la facilità con cui cambia un canale in televisione”; “l’aceto amaro del rifiuto”.



In questo drammatico invito a non fare zapping sulla realtà, quando non ci riguarda da vicino o anche solo non piace alla nostra “sensibilità”, c’è l’invito a non credere di cavarsela, con la realtà della guerra, dell’assenza di pace nel nostro mondo, con un sms che versa un euro e poi si cambia canale; tanto quello che si poteva fare lo abbiamo così fatto. 

C’è qualcosa di più duro e impellente nell’analisi del Papa. La drammatica consapevolezza che lo “stato di guerra” è lo stato tendenzialmente “normale” — durerà decenni — della globalizzazione, del ridefinirsi di rapporti di forza, di potere, di interessi sul pianeta; e tutti siamo chiamati a decidere se dobbiamo rassegnarci a questa “normalità” che nasce “dai deserti dell’orgoglio e degli interessi di parte, dalle terre aride del guadagno a ogni costo e del commercio delle armi”, sperando che non tocchi a noi o voltando lo sguardo dall’altra parte; oppure dare mani piedi ed idee alla “sete di pace” che c’è nel cuore dell’uomo. 



E qui il ruolo del dialogo tra religioni e culture si fa stringente nella sua necessità per arginare una geopolitica sempre meno nelle mani dei “popoli”, se mai lo è stata, e sempre più decisa da intrecci fra oligarchie di interessi transnazionali e globali e le poche potenze geopolitiche globali. Religioni e culture sono invitate a non asservirsi a questa logica “diabolica” della divisione (“non esiste un dio di guerra”, è una bestemmia di Dio), pensando di lucrare un dividendo “religioso”, di espansione della propria influenza sulle masse. 

Un pericolo che è la tentazione demonica di religioni che abbiano perso la propria anima. E che il Papa di Roma conosce bene, nella stessa storia della sua Chiesa, l’unica che sul punto “ha chiesto scusa”. E che proprio per questo ha le carte in regola, nel confronto interreligioso, di alzare la voce della profezia della pace; che compito delle religioni è di servire il Dio Unico e Uno, di cui parlano. Perché se Dio è Unico e Uno, è il Dio di tutti, e non ha bisogno delle armi di nessuno per essere Uno. 

Quelle armi lo smembrano, lo fanno diventare l’idolo di una parte sulle insegne dei suoi eserciti. L’una-unicità di Dio è sostanza sua, è pura sostanza di pace e di amore per tutti gli uomini; non è attributo di questa o quella confessione che lo professi, non gli è attribuita dal Nome con cui a Lui si rivolgono. Che i capi religiosi lo ricordino a se stessi, e se ne facciano profeti davanti ai capi politici e alle masse cui si rivolgono nel nome di Dio “misericordioso”. La misericordia di Dio comincia sempre dagli altri; dall’accoglienza, dalla collaborazione, dall’educazione alla dignità di tutti, le vie su cui oggi solo può camminare la pace se la vogliamo.

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