“Le persone perbene non fanno carriera nella pubblica amministrazione”. A pronunciare questa frase non è stato Fantozzi o un travet frustrato, ma il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone.

La sua dichiarazione è stata più volte condivisa sui social network, accompagnata dai soliti commenti amari e rassegnati degli utenti. Avrebbe meritato perlomeno una seria riflessione da parte della politica, perché mette in luce due aspetti significativi e per nulla scontati: ci sono persone perbene nella pubblica amministrazione ma raramente occupano posizioni apicali.



Una visione che rompe gli schemi proposti negli ultimi anni dai governi sia di destra sia di sinistra, coadiuvati da un’informazione che tende ad attribuire tutti i mali della pubblica amministrazione agli impiegati statali sempre descritti come “furbetti”, “fannulloni” assenteisti, pigri e svogliati, alimentando lo sdegno e l’avversione della pubblica opinione e dei lavoratori del settore privato, in un’abile strategia del “divide et impera“, per distogliere l’attenzione dal vero cancro della amministrazione statale: la dirigenza. 



Una dirigenza strapagata e quasi sempre inadeguata ad assumere le responsabilità che i compiti istituzionali e organizzativi richiedono, ma che raramente è sottoposta ad una reale valutazione come, peraltro, normativamente previsto. Ci sono migliaia di dirigenti statali corrotti, incapaci, inefficienti, responsabili di disservizi, mala gestione e danni erariali che non solo non vengono sanzionati, ma ricevono persino il premio di risultato a fine anno, erogato indistintamente a tutti, dovendo dichiarare di aver raggiunto gli obiettivi da essi stessi prefissati. 

Dirigenti che ancora oggi continuano ad essere “nominati” in totale spregio delle norme e dei pronunciamenti di organi di giustizia, i quali tentano invano di ripristinare un minimo di  legalità. Negli ultimi anni la disciplina che regola il reclutamento dei dirigenti pubblici è stata oggetto di profonde riforme atte a garantirne l’imparzialità e la trasparenza, ciò nonostante le nomine continuano ad essere attribuite arbitrariamente, in una logica di lottizzazione sindacale e partitica e con un’arroganza dovuta alla sicurezza dell’impunità. 



Benché la Corte costituzionale, con sentenza 37/2015, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale del sistema di assegnazione di incarichi dirigenziali ai funzionari, secondo l’applicazione distorta dell’articolo 19, comma 6, che ne danno praticamente tutte le amministrazioni, e benché  la Corte dei Conti abbia chiarito che “l’amministrazione deve rendere conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili nella dotazione organica ed i criteri di scelta”, questa vergognosa prassi continua, con incarichi affidati senza che siano specificati i requisiti richiesti, i criteri di valutazione e una graduatoria dei candidati. 

Ultimamente anche una senatrice pentastellata ha presentato un’interrogazione parlamentare, rilevando l’irregolarità di una di queste procedure: “Vi sono numerose segnalazioni di punteggi non correttamente calcolati o attribuiti e addirittura di incarichi formalizzati senza che i vincitori siano stati resi pubblici. Tutti elementi che fanno quasi pensare a un modus operandi finalizzato a individuare criteri di valutazione volti a favorire alcuni candidati rispetto ad altri”. Ma la notizia ha suscitato solo un moderato sdegno in una cittadinanza ormai avvezza e rassegnata.  

E’ facile immaginare il malcontento e il senso di frustrazione che serpeggia nei corridoi dei “palazzi” tra coloro i quali assistono da anni a questi soprusi e si sentono poi ripetere che non ci sono le risorse per rinnovare i contratti nazionali, bloccati dal 2009, e adeguare al costo della vita stipendi che non consentono più di arrivare a fine mese. E’ altresì comprensibile che l’amarezza si trasformi poi in risentimento e disaffezione verso l’amministrazione. 

Nondimeno un gran numero di impiegati e funzionari continuano a svolgere con abnegazione, serietà e impegno il proprio lavoro pur sapendo che le lettere di encomio e i ringraziamenti verbali non si tradurranno mai in un concreto aumento salariale o in un avanzamento di carriera. I dirigenti incapaci fanno a gara per accaparrarseli, perché senza di loro l’ufficio si paralizzerebbe, ma si guardano bene dal promuoverli perché chi possiede un innato senso del dovere e un’etica del lavoro non è funzionale al sistema clientelare che lo rigetta come un organismo estraneo. Un cancro per autoalimentarsi ha bisogno di cellule malate, non di cellule sane. 

Molti funzionari hanno i titoli, le competenze e l’esperienza per avere responsabilità manageriali, eppure si vedono continuamente scavalcare da neolaureati senza esperienza ma con tessera di partito, o da colleghi meno preparati e diligenti, anzi spesso proprio da quei “furbetti” che falsificano permessi e timbrature, i quali sono naturalmente più inclini e hanno più tempo per intrallazzare e coltivare le “amicizie giuste”. Chi, tra gli esclusi, propone un ricorso viene subito scoraggiato: “lascia perdere, meglio non mettersi contro il potere” è il consiglio sussurrato. Così si mantiene lo status quo. Si accetta tutto in nome dell’ambito “posto fisso”. Meglio ingoiare rabbia, orgoglio e dignità piuttosto che rimettersi in gioco nel “privato”, specie dopo una certa età. E’ sconfortante considerare che Le miserie d’Monsù Travet (commedia di Vittorio Bersezio, ndr) fu scritto nel 1863 e che da allora, malgrado i vari proclami di esponenti politici di voler ripristinare la meritocrazia nel pubblico impiego, nulla è cambiato. 

Ovviamente esistono anche dirigenti capaci e preparati nella Pa, specie in alcuni posti strategici per il Paese e per la sua rappresentanza diplomatica all’estero, che si contornano di collaboratori altrettanto validi e formano piccole isole sperdute nel mare magnum dell’inettitudine e del pressappochismo, osservate con una certa diffidenza e subito boicottate se cercano di diffondere il loro modello virtuoso altrove. 

Tuttavia un’amministrazione statale, per essere efficace ed efficiente, ha bisogno di una classe dirigente qualificata e competente e di un concreto sistema di premialità e di riconoscimento del merito. 

Occorre considerare che nemmeno i concorsi pubblici sono in grado di assicurare una selezione equa, perché troppo incentrati sulla preparazione giuridica e sui titoli accademici ed inadatti ad accertare le reali competenze lavorative e le capacità organizzative e manageriali dei candidati. 

Paradossalmente il sistema migliore sarebbe proprio quello delle raccomandazioni, intendendo con ciò la valutazione da parte di una commissione qualificata e super partes dei migliori elementi su segnalazione dei diretti superiori, come avviene nel sistema anglo-sassone, dove sono espressamente richieste almeno tre raccomandazioni oltre al curriculum, e in molte aziende private.   

Ora, è facile comprendere come questa modalità possa funzionare perfettamente nel settore privato dove un imprenditore ha tutto l’interesse ad avere dirigenti capaci per far crescere la propria azienda e i risultati raggiunti sono facilmente misurabili, pertanto chi raccomanda un impiegato per una assunzione o una promozione impegna il proprio buon nome e la propria credibilità (se non il proprio posto di lavoro) nel garantirne la competenza e l’affidabilità. 

Al contrario, nel settore pubblico italiano questo sistema non funziona perché chi seleziona antepone il proprio vantaggio personale in una logica di scambio di favori, e non valuta quasi mai su base meritocratica. Né si potrà mai sperare in un’inversione di rotta finché non si agirà sulla causa che determina la tendenza a perseguire unicamente l’interesse del proprio ristretto nucleo o partito e il mancato riconoscimento della “cosa pubblica” come patrimonio collettivo da salvaguardare e proteggere per il benessere di tutti.  

Il termine “familismo amorale”,  riferito alla società italiana, fu coniato nel 1958 dall’antropologo Banfield, il quale ha anche descritto gli effetti devastanti di tale comportamento (definito appunto “amorale”) riguardo alla vita politica e alla gestione del bene pubblico: “nessuno persegue l’interesse comune, salvo quando ne può trarre un vantaggio personale, e chiunque afferma di farlo è ritenuto un truffatore; i pubblici dipendenti non si identificano con l’organizzazione che servono, tendono a farsi corrompere ma anche se non lo fanno sono comunque ritenuti corrotti; i cittadini si sentono autorizzati ad infrangere la legge ogni qual volta sembrerà possibile evitarne le conseguenze”.

Nepotismo, favoritismi e corruzione esistono anche all’estero, ovviamente, basta leggere le recriminazioni di cittadini inglesi, tedeschi o francesi che sui social network lamentano la difficoltà di accedere a posizioni di rilievo senza appoggi influenti. D’altra parte lo spoils system non lo abbiamo inventato noi. Tuttavia è innegabile che nelle altre nazioni occidentali (e non solo quelle) le competenze, la diligenza e la rettitudine sono elementi imprescindibili per l’avanzamento di carriera. L’amministrazione pubblica è considerata la più alta espressione della nazione e i “servitori civili” (civil servants) si sentono investiti della responsabilità di rappresentare degnamente la loro patria e i loro concittadini perché esiste un forte senso dello stato, l’impegno condiviso di salvaguardare l’immagine del proprio paese e una severa condanna sociale per chi non rispetta le regole.

Nel nostro paese nessun governo ha mai compreso la necessità di affrontare questa criticità tutta italiana, nessun governo ha mai compreso la necessità di formare nuove generazioni in cui inculcare principi di rettitudine morale e di rispetto per le istituzioni, nessun governo ha mai compreso la necessità di sviluppare nei giovani una coscienza civica. Forse nessun governo ha mai avuto realmente interesse a farlo. 

Purtroppo il gattopardismo ha sempre dominato la scena politica italiana, i cambiamenti sono stati sempre annunciati con discorsi roboanti e privi di sostanza; “bisogna che tutto cambi se vogliamo che tutto rimanga come è”. Cosicché agli uomini (e alle donne) di buona volontà non resta che sperare in un domani migliore affidandosi alle “stelle”.