Ma quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra? Questa è la domanda più grande, più urgente e inquietante di tutti i Vangeli. E riguarda noi, le nostre comunità, la nostra storia e cultura. E’ il primo pensiero alla notizia che dopo 577 anni gli Agostiniani se ne vanno dall’antico loro convento di Gela. Sono rimasti in due, vengono mandati altrove. Troppo costoso tenere aperto il convento, se la crisi delle vocazioni non porta nuovi frati. 



Correva l’anno 1439, quando veniva eretta la Chiesa con l’annessa casa dei monaci, dedicata ad Agostino d’Ippona. C’era un’aria di casa, per il santo di Tagaste che aveva saputo tenere insieme i barbari e i romani, in quella terra greca che continuava e continuerà a cambiare nome, prima Lindos, poi Gela, poi Eraclea, poi Terranova, come la volle nominare Federico II di Svevia che la ricostruì. Incrocio tra normanni, arabi e latini, crogiolo di popoli e fedi e narrazioni, ben prima che il Petrolchimico ne violentasse i paesaggi. 



Quel convento dalla facciata neoclassica, coi segni delle nobili famiglie benemerite che lo ornarono di altari e cappelle, chiude. O meglio, chiudono i frati, che con carità e intelligenza il vescovo di Piazza Armerina ha detto che sarà cura della diocesi proseguirne le attività, le Messe, e feste, e soprattutto la presenza nella città. Rinnovandone l’uso: un centro di spiritualità, e una casa, un dormitorio per i poveri. 

Nulla è mai perduto, nella bimillenaria Chiesa cattolica. Ma certo, il magone agli abitanti e anche a noi viene, perché lo vediamo, lo sappiamo, che i sacerdoti son sempre meno, che dobbiamo farci assistere da chi arriva da paesi lontani, e che quest’Europa è sempre più indifferente, più che distante, dalla fede e dalle sue domande. Tutti a parlar bene del papa, ma come si parlerebbe di Obama, o di Zuckerberg. Non è cosa che ci riguardi nel nostro intimo, non è un bisogno, un’inquietudine che lascia il cuore smarrito finché non trova pace in Lui, confessava Sant’Agostino. Eppure, bisognerà riflettere sulla supposta e pretesa centralità europea nella Chiesa universale. Bisognerà ragionare sulla beata incoscienza con cui ci siamo illusi di essere noi, il cuore. Sulla trascuratezza con cui abbiamo fatto strame della fede dei padri, convinti da una pressante propaganda e da un benessere che ci ha tramortiti e fiaccati che potessimo fare a meno di Dio. 



Abbiamo smesso di commuoverci e ringraziare se un figlio o una figlia decidevano per la vocazione religiosa, abbiamo iniziato a sorridere o a star zitti alle beffe o alla condiscendenza con cui si trattano i preti, a ridurre il loro servizio a quello di operatori sociali, a sopportare come retaggio del passato le loro manie liturgiche, la loro insistenza sui temi etici, cosicché hanno smesso pure loro di insistere, per non disturbare.  

Poi ci stupiamo se si accorpano le parrocchie, se si svuotano i monasteri, se volti stranieri vengono compassionevoli a  confortare le nostre vite, perché di consolazione e presenza ne abbiamo sempre bisogno. Ci l’ha detto che sia un male? 

Quando Benedetto XVI profetizzava, ed era ancora un giovane teologo, sul resto d’Israele cui si sarebbe ridotta la cristianità europea, per ripartire con un nuovo inizio, non era lamentoso né depresso. Tocca seguire i segni dei tempi. Tocca lasciarsi guidare dalla sapienza di chi semina dove vuole, e passa a raccogliere quando vuole. Non è un male che oggi dalle Filippine o dall’Africa arrivino testimonianze di fede, di carità, di slancio gioioso, di appartenenza alla Chiesa. Che dai paesi martoriati d’Oriente arrivi a noi, segnata col sangue, la certezza che il seme de cristiani non diventerà arido. Poi, a Gela, possono vedere come un presagio felice il nome del sacerdote cui è stato affidato temporaneamente il convento. Si chiama don Lino Di Dio…