Un desiderio espresso quasi per caso, un dettaglio di una giornata qualunque. Eppure per Bob Cornelius il questionario scolastico dove il proprio figlio autistico Christopher — a domanda diretta — rispondeva di non avere amici non è stato un fatto secondario. La storia, in arrivo dagli Stati Uniti, è diventata subito virale: il padre che pubblica su Facebook il questionario del figlio e, in un lungo post, si duole di dover ricorrere alla compassione per suscitare simpatia e amicizia verso Christopher e chiede a tutti uno sforzo educativo per insegnare ai ragazzi a non escludere ragazzi “diversi” o con problemi.



In linea di principio è tutto molto corretto, ma qualcosa in questa vicenda non quadra. E il problema non sta tanto nell’enfatizzazione dei social (fenomeno con cui è importante imparare a coabitare) o nell’eterno riproporsi dell’educazione come panacea a tutti i problemi dell’umanità, bensì nella parola sulla quale il padre di Christopher ha giocato tutto il suo post: desiderio. Il modo con cui Bob ha risposto all’emergere del desiderio del figlio è paradigmatico dell’atteggiamento di un’intera epoca, di tutta la nostra società. Dinnanzi al manifestarsi dei desideri, infatti, la nostra mossa non è tanto uno “stare”, un “rimanere” silenzioso davanti a quel desiderio per capirlo e per scoprirne l’ultima e intima origine, ma piuttosto un fare qualcosa per esaudirlo o contrastarlo. È come se l’alternativa che ogni nostro desiderio pone fosse quella tra il cedere — l’assecondarlo — o il trattenersi — il respingerlo.



Bob si è messo in moto per esaudire il desiderio del figlio e non ha permesso a se stesso di abitare fino in fondo il dolore, le lacrime, la rabbia che quel desiderio manifestato aveva generato. Mi rendo conto quanto una posizione simile, in una società efficiente e produttiva come la nostra, sia scandalosa o, più blandamente, ritenuta ingenua. Eppure la realtà che ci portiamo dentro non va esaudita o respinta, ma va ascoltata. Le azioni spesso non fanno altro che soffocare il grido che attraverso la realtà si esprime. Il desiderio manifesta un bisogno più radicale che necessita di tempo per emergere; ma è quel tempo vissuto e abitato che, in ultima istanza, ci cambia. Questo vale per un figlio, per un matrimonio, per un ambiente di lavoro, per un impulso sessuale o per qualunque emozione che ci spinga all’azione. Provare a fermarsi e ad ascoltare, provare a permettere che il desiderio ci parli, ci cambi, si trasformi è veramente un nuovo inizio. Quell’inizio che cambia il modello della nostra genitorialità contemporanea, che non può né essere una genitorialità che perennemente esaudisce, né una genitorialità ossessivamente ostativa.



Tornare a parlarsi e ad ascoltarsi, prima ancora con se stessi che con l’altro, è l’unica via d’uscita alla confusione del nostro tempo. “The only way of out is down” diceva Lowen, l’unica strada al nostro destino è andare a fondo di ciò che si manifesta in noi, di ciò che quel Destino manifesta nelle nostre viscere.

Bob in queste ore ha fatto tanto per suo figlio. Ma quello che ha fatto lo ha cambiato? Lo ha reso più vero di fronte al proprio dramma e al proprio dolore? Noi non abbiamo bisogno di eroi, ma di uomini che ritrovino fino in fondo la loro umanità. Perché — come canticchiava Jovanotti qualche anno fa — “l’unico pericolo che io sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente”, di essere un uomo pieno di risposte, ma drammaticamente vuoto di domande. Di ciò che, in poche parole, rende la natura umana capace di dialogare con l’Infinito.