Andare su Marte? No grazie. Lo so che non è mai venuto in mente a nessuno, ma poiché i giornali e le tv ci martellano almeno settimanalmente con questa prospettiva, data sempre più come realistica, bisogna dare una risposta chiara. Il superimprenditore sudafricano che profetizza un milione di persone nel 2060. Ma noi non ci saremo. Salvo specificare che bisogna essere pronti a morire, perché andare forse si può, tornare indietro un po’ meno. C’è il team italiano di disperati in concorso per andare sul Pianeta Rosso. Auguri agli studenti del Politecnico di Torino, intanto sono entrati in una squadra, magari poi gli trovano un posto in qualche azienda areospaziale. E poi: ci vogliono 200mila dollari, il motore fototonico (?) che ti porta là in tre giorni (bum!), e la Nasa che testa i motori…Vabbè che non possiamo solo sentir parlare di referendum, e anche la fantascienza ha i suoi fans, ma perché quest’insistenza mediatica? Solo perché non si sa più come incuriosire il lettori? O il disegno copre la richiesta pressante di fondi per la ricerca, che è bellissima, ma di solito serve innanzitutto a chi la sponsorizza, che sono poi gli stessi che producono missili, satelliti e compagnia?



Vantando la totale ignoranza in astrofisica, ricordo mestamente che sviare l’attenzione dei cittadini non è nobile né giusto. Che la propaganda sul bello della scoperta, sulle magnifiche sorti e progressive è un leit motiv antico e usato, ma la realtà dice ben altro, e presenta il conto. E’ una considerazione rozza e miope, e pazienza, ma i soldi spesi per andare su Marte potrebbero essere più utilmente impiegati in altro. C’è pur sempre un milione circa di persone che muore di fame e di sete, sul pianeta, e magari incentivare le nuove tecnologie in campo idrico e agricolo non sarebbe male. O al di là di farraginose e politically correct conferenze mondiali sul clima, scervellarsi per ridurre le emissioni nocive, cercare energie alternative, bloccare lo scioglimento dei ghiacciai, tutte quelle cose che i catastrofisti tirano in ballo ogni giorno e i negazionisti negano, of course. 



Però date un’occhiata panoramica alle metropoli cinesi e ditemi che ne sarà di quei milioni di bambini coperti da coltri impenetrabili di smog, tra qualche decina d’anni. Piccinerie, altro che sogno di Icaro, Ulisse, o per restare in casa, Enea, Colombo, Magellano. E noi italiani siamo un popolo di navigatori santi poeti. La poesia l’è morta, la santità non sta così bene e ci resta solo il navigare, di solito in rete, ben più esaltante se si parla di cieli. Solo che la propaganda di cui sopra arriva a Marte ma su un percorso a tappe, in cui troviamo il Ponte sullo Stretto, e prima ancora le Olimpiadi… 



Le grandi opere. Le grandi imprese. Ma a che servono, qualcuno se lo chiede, oltreché a ringalluzzire l’immagine appannata e repressa dai potenti del mondo di un paese legato al cappio? Non abbiamo bisogno di ponti, basta e avanza tirar su quelli che dice il papa. Non abbiam bisogno di mezzi superveloci, abbiamo bisogno che tutti partano e arrivino. Non abbiamo bisogno di eventi, ma di quotidiana normalità, per tutti. 100mila posti di lavoro e ben oltre si offrono per rimettere in sesto il territorio soggetto a terremoti e alluvioni. Non siamo un grande paese se il nostro nome risuona perché abbiamo la torre più alta, il ponte o il tunnel più lungo, ma se la gente vive in modo decente là dove vuol vivere. Non siamo un grande paese se ospitiamo le Olimpiadi, ma se permettiamo a tutti i ragazzini di avere una palestra e un campo da gioco vicino a casa. 

L’Italia va avanti se si va avanti tutti insieme, senza far volare prima costruttori, architetti di grido. Altro che Marte. Abbiamo imparato a guardare il cielo solo per poterlo usare. Non sappiamo più contemplarlo per il gusto di conoscerlo, e per essere indotti dalla sua bellezza a cercar altro Cielo.