Georgia e Azerbaigian sono le mete del nuovo viaggio di Papa Francesco. Oggi è atterrato a Tbilisi, lunedì sarà a Baku. Un paese a maggioranza ortodossa, che si fregia d’essere cristiano apostolico, e un paese a maggioranza musulmana. Il Pontefice completerà nei prossimi giorni il pellegrinaggio caucasico iniziato a fine giugno con l’importante visita in Armenia dove ha incontrato il supremo patriarca e catholicos Karekin II, capo della Chiesa armeno-apostolica. Dopo Pantelleria, Cuba, Lesbo, Messico, ora il Caucaso: si tratta di “crocevia” della contemporaneità con le loro profonde trasformazioni e contraddizioni. Luoghi che nel linguaggio e nel lavoro missionario di Papa Francesco prendono il nome di “periferie del mondo” e di “ponti”: qui si giocano partite cruciali non solo per gli equilibri politici ma anche per gli sviluppi della pace e del dialogo tra religioni.



In Georgia da anni l’Università Ca’ Foscari di Venezia è impegnata in un lavoro archeologico al quale partecipa Marilyn Kelly, archeologa americana che, con il marito Giorgio Buccellati, ha condotto numerose ricerche in Siria dove da trent’anni è direttrice degli scavi della città di Urkesh. La lunga frequentazione della Georgia l’ha portata a una profonda conoscenza del paese e a una passione per la sua storia che si sono espressi nella mostra “Georgia. Paese d’oro e di fede” presentata al Meeting di Rimini in agosto.



Marilyn Kelly-Buccellati ha curato sia l’evento sia un interessante volume sulla Georgia, uno dei pochi strumenti oggi disponibili per comprendere le ragioni del viaggio del Papa. Il libro (Georgia, Paese d’oro e di fede, Sef 2016) raccoglie saggi di autorevoli studiosi georgiani, un percorso storico-culturale di Marilyn Kelly e un interessante testo di Marco Rossi e Alessandro Rovetta, docenti di storia dell’arte nell’Università Cattolica di Milano, che leggono l’architettura e le decorazioni delle chiese georgiane cogliendone l’originalità e stabilendo alcuni importanti nessi con la tradizione occidentale.



Professorezza Kelly, che significato ha questo viaggio apostolico in Georgia?

Si tratta di un viaggio importante. Il Caucaso è nelle dinamiche della globalizzazione una “periferia del mondo”, vive una situazione economica difficile, è attraversato da una conflittualità permanente determinata da spinte autonomistiche. I fronti aperti più noti prendono il nome di Abcasia e Ossezia in Georgia, di Alto Karabakh in Azerbaigian: si tratta della regione contesa con l’Armenia per la quale è stata firmata una tregua il 16 maggio di quest’anno. Ma molte altre sono le situazioni regionali di crisi di cui poco si parla. Proprio perché Armenia, Georgia e Azerbaigian costituiscono un crocevia sensibile della contemporaneità, il Papa ha voluto farsi pellegrino di pace per costruire ponti tra Europa e Asia, tra Occidente e Oriente e per riaprire un dialogo interreligioso ricostruendo relazioni andate perse nei secoli. Nel Caucaso s’incrociano l’anima ortodossa (maggioritaria), quella islamica (molto forte) e la cattolica in minoranza. Tre paesi per un totale di 17 milioni di abitanti e dove i cattolici esprimono il 3,6% dei credenti.

Prima di concentrare le sue energie su Siria e area mesopotamica, lei, in un lontano PhD, ha studiato la Georgia e ora da tempo vi lavora. Che vita di fede si incontra? Che storia ha alle spalle questa nazione così orgogliosa della propria identità ortodossa e della propria lingua?

La Georgia mi affascina perché è un esempio di popolo custode di un identità millenaria. Le invasioni subite nei secoli prima e dopo Cristo hanno portato in questo popolo culture e fedi diverse, dallo zoroastrismo all’islam nelle sue diverse espressioni. Il fatto che l’identità di questo popolo sia sopravvissuta indenne è un altissimo tributo al suo senso di coesione nazionale e ai valori che l’hanno resa possibile. L’avvento del cristianesimo segna una svolta significativa, iniziando una nuova storia che rafforza e orienta l’identità. E’ tra le prime nazioni a convertirsi poco dopo l’editto di Costantino con il quale intrattenne un rapporto di grande stima e amicizia. L’imperatore riconoscente avrebbe donato, secondo la tradizione, una reliquia della croce di Cristo e un chiodo della crocifissione rinvenuti dalla madre Elena a Gerusalemme. Il cristianesimo qui si esprime subito in due dimensioni: la missionarietà e la bellezza. Il monachesimo georgiano, grande custode della fede e colonna portante della formazione religiosa, si caratterizza per la sua capacità di insediarsi negli stati confinanti e di edificare monasteri in Palestina (per essere più vicini ai luoghi di Cristo), in Armenia, in Siria e sul Monte Athos. Sono i monaci che intraprendono una intensa attività di trascrizione dei testi sacri e degli scritti dei Padri della Chiesa. Non solo li riproducono, ma avviano una immediata traduzione in georgiano. Se possiamo oggi leggere numerosi testi dei primi secoli lo dobbiamo alle traduzioni georgiane perché gli originali sono andati dispersi o bruciati nelle diverse ondate iconoclaste.

 

E la bellezza?

I monasteri sono un esempio di architettura originale come pure le pitture murali che coprono le pareti delle chiese. Una tradizione artistica unica nelle soluzioni trovate e nelle tecniche che anticipano temi tipici del romanico europeo e mediterraneo. Ai secoli VI e VII si fa risalire il prototipo del quadriconco georgiano, come i secoli XI e XII si contraddistinguono per la ricerca della monumentalità che non ha paragoni in Oriente. Nel volume preparato per il Meeting questi aspetti sono ben spiegati da Marco Rossi e Alessandro Rovetta che approfondiscono anche la presenza delle croci nella scultura che dai luoghi sacri si estende agli oggetti più preziosi come le oreficerie. Croci presentate in una vasta gamma di varianti iconografiche in rapporto a Cristo, a Maria e ai committenti. La Georgia compie un percorso tutto suo nella ricerca della bellezza, espressione di cammino verso Dio e di manifestazione della sua presenza nei luoghi di culto e non solo in essi. La bellezza diventa una categoria d’incontro con il divino.

 

Quale messaggio comunicano la mostra da lei realizzata con i colleghi georgiani e il libro pubblicato? 

E’ stato un lavoro condiviso e nel quale si sono unite molteplici competenze e discipline dall’archeologia alla storia dell’arte, dalla storia della chiesa a quella nazionale. Questa interdisciplinarietà ha permesso di guardare a un popolo cogliendo contestualmente i vari aspetti che hanno concorso all’identità e al cammino di fede, una fede che resiste a qualsiasi dominazione e invasione. Anche la dura repressione sovietica non è riuscita a sradicare dalle coscienze la dimensione religiosa, l’appartenenza a un popolo, l’identità espressa da tradizioni, costumi e dalla propria lingua. Ringrazio molto David Lordkipanidze, direttore del Museo nazionale georgiano e i professori Ekaterina Gamkrelidze, Nino Lordkipanidze, Mikheil Tsereteli. Il messaggio sia della mostra, replicabile in altre città, sia del libro si lega molto al viaggio di Papa Francesco. La Georgia ha svolto nella sua storia un delicato quanto prezioso e incisivo ruolo di ponte tra Occidente e Oriente. Si è sempre considerata l’ultimo avamposto occidentale e la mediatrice di dialogo con l’Est Europa e con il vicino Oriente. Un compito che ha potuto assolvere grazie alle sue profonde radici cristiane, a una chiesa autocefala ma fedele custode delle verità rivelate: al primo concilio di Nicea e a quello di Calcedonia si è distinta per la difesa del Credo e per la condanna delle eresie dal monofisismo al nestorianesimo. Riprendere il dialogo, come sta insistendo il Papa, con le chiese ortodosse significa guardare alla fede come motore di cambiamento e di ricostruzione di un’Europa smarrita e di considerare le religioni come soggetti attivi nella ricerca di soluzioni di pace. Ma anche come protagoniste di una cultura per l’uomo in grado di affrontare ogni aspetto delle crisi dall’ambiente all’economia, dalle migrazioni alla convivenza plurale.

 

(Giovanni Santambrogio)